Home » È tempo di essere ottimisti

È tempo di essere ottimisti

by Adriano Scianca
1 commento
ottimismo

«Noi abbiamo inventato la felicità», faceva dire Friedrich Nietzsche al suo «ultimo uomo», ovvero al tipo umano trionfante al termine dell’era egualitaria. Il conformismo, l’adeguazione filistea allo spirito del tempo, avevano ai tempi di Nietzsche le sembianze di una soddisfazione beota, di un compiacimento ottuso per se stessi e la propria epoca. Oggi nessuno porrebbe l’epoca presente sotto il segno della felicità. È l’epoca dell’ansia, della paura, della paranoia, della frustrazione.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di febbraio 2023

«In passato», ha scritto Marcello Veneziani nel suo ultimo libro, non a caso intitolato Scontenti, «il potere voleva che i suoi sudditi non fossero scontenti o comunque non superassero mai il livello di guardia dell’insoddisfazione. Dell’infelicità privata di solito si curava poco, ma la scontentezza era considerata un segno potenziale di ostilità verso gli assetti dominanti, una specie di obiezione di coscienza in via di sviluppo, un lievito e una miccia per le ribellioni; comunque uno stato inverso, e sottilmente eversivo, da frenare. Accontentarsi era dovere del suddito, e il potere spingeva verso quella forma inerme di rassegnazione con il bastone e la carota, le minacce e le lusinghe».

Progressismo addio?

Veneziani parla qui di coloro che il potere lo subivano. Quelli che, invece, lo rappresentavano, erano contenti come una pasqua: le ideologie del progresso sono state i binari su cui ha viaggiato la modernità, il domani appariva radioso, splendente. Oggi le cose sono cambiate. La sfiducia nei confronti del presente e del futuro è generalizzata. I quarantenni attuali sono la prima generazione dopo secoli che può guardare solo con invidia al tenore di vita dei propri genitori. L’ascensore sociale è bloccato, un lavoro stabile, una casa di proprietà, la pensione sono un miraggio. Viviamo in città sporche e rabbiose, in cui nulla sembra funzionare.

La futurologia ingenua degli anni Sessanta («presto le macchine voleranno e non esisteranno le malattie») ha lasciato il posto a incubi distopici e visioni di sciagura. Le ideologie che si fanno largo nel pensiero ufficiale sono tutte ansiogene: l’eco-catastrofismo, il terrorismo sanitario. Persino le ultime propaggini del liberalismo o del cosmopolitismo hanno perso ogni tratto positivo, è tutto all’insegna del «fate presto!». Fate presto a mettere in ordine i conti, fate presto a salvare i migranti.

Da qualsiasi parte ci giriamo, sembra di vivere sotto a una cappa, per citare un altro libro di Veneziani: «Che cos’è questa strana sensazione di disagio che ci accompagna? Quella nausea di vivere giorno dopo giorno in questo frangente, in questo clima… Ci sfugge la chiave, il senso del presente, ne avvertiamo solo lo scorrere e il naufragare. Ci manca qualcosa di essenziale ma d’impreciso. Ci manca il respiro, e non sappiamo dire in che senso, in che modo, perché. È come se fossimo sotto una Cappa. Sì, una Cappa. È la definizione meno vaga; indica una sensazione che ci prende al petto e non sai dire se risale dai polmoni, dal cuore, o se scende dalla mente al cuore, al petto, fino a chiudere la bocca dello stomaco. Incombe sul mondo, non solo su di noi. La scriveremo con la lettera maiuscola. Una Cappa ci opprime, la sua densità ci impedisce di vedere oltre, di leggere dentro, che poi vuol dire essere intelligenti; di essere vivi a pieno respiro», scrive l’intellettuale pugliese nel saggio per l’appunto intitolato La Cappa.

L’ottimismo e il sorriso del ribelle

Il problema è che – anche questa è una novità, in un certo senso – pure i settori ribelli, i non conformisti, sembrano incapaci di squarciare la cappa. Anzi, paradossalmente ne sentono l’oppressione con ancora maggiore ansia. Da tempo, ormai, il mondo cosiddetto dissidente sembra avvolto da un’aura depressiva e impaurita. La legittima sfiducia nei confronti del potere si instrada sul binario morto del complottismo paranoide. Il volto del nemico, una volta ben definito, sfuma in una visione indistinta, da cui emergono solo vaghi profili, minacciosi proprio perché inafferrabili. Termini come «transumanesimo» o «biopolitica» si fanno largo nei discorsi, senza un significato ben definito, ma avvolgendo di un tetro presagio persino la nostra intimità, i nostri corpi, i nostri bambini. Tutta una società appare avviluppata da questa spirale angosciante, e il mondo dissidente sembra sia quello che più rischia di andare a fondo.

Se questo è il quadro, vale la pena di chiedersi: e se fossimo noi a rilanciare l’ottimismo? Ovviamente l’ottimismo, inteso come credenza che le cose vadano necessariamente bene, è decisamente idiota, del resto non più del pessimismo, inteso come credenza che le cose vadano necessariamente male. Le cose, molto semplicemente, non vanno in nessun modo senza che qualcuno le crei, le plasmi, le generi, o quanto meno le indirizzi, le organizzi, le cavalchi. L’ottimismo di cui parliamo riguarda proprio la fiducia in questa nostra capacità di intervenire sul reale, di pensare un futuro ancora aperto. Ed è, più in generale, un atteggiamento di fronte alla vita: uno spirito solare, un sorriso in faccia al destino. Certamente la rabbia, lo scontento, sono un presupposto per essere rivoluzionari: chi è contento dello stato di cose presente, perché dovrebbe cambiarlo? Di motivi per essere scontenti, oggi, ce ne sono a bizzeffe e i nemici di tutto ciò che abbiamo a cuore spuntano a ogni angolo. Tutto sta a pensarli come i custodi di un…

You may also like

1 commento

fabio crociato 19 Febbraio 2023 - 12:44

Pessimismo costruttivo e le stelle staranno a guardare, pure rispettose. Egregio, costruttivo, utilmente provocatore A.Scianca…, o no? Anti rischio “beota”, ora e sempre.

Reply

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati