Roma, 12 feb – Esiste un orologio detto dell’Apocalisse. Lo inventò un gruppo di scienziati americani sensibili ai pericoli sullo scacchiere mondiale e che vollero trovare un modo con cui quantificare le possibilità di una fine del mondo, nell’immediato dopoguerra. Il criterio di funzionamento di questo strumento virtuale è intuitivo: più le lancette dei minuti si avvicinano alla mezzanotte, più prende forma la catastrofe planetaria. Il numero dei minuti alla mezzanotte aumenta o diminuisce, anno per anno, a seconda della portata degli eventi storici in ballo.
L’ultimo aggiornamento dell’orologio dell’Apocalisse
All’indomani della sua nascita, le lancette furono settate a 7 minuti dalla mezzanotte: si inaugurava la Guerra Fredda. Col primo test del programma nucleare sotto cortina di ferro scesero a 3 minuti, anno 1949. Tornarono a 7 nel 1950, salirono a 12 nel 1963, scesero a 10 nel 1969, di nuovo a 7 nel 1980, a 4 nel 1981, a 3 nel 1983, impennandosi a 17 con la morte dell’Urss.
Tuttora in funzione, l’ultimo aggiornamento del 20 gennaio 2022 da parte del Bulletin of the Atomic Scientists dà l’orologio dell’Apocalisse a soli 100 secondi dalla mezzanotte. Coi nuovi venti di guerra a soffiare, fra Est e Ovest, per la terra d’Ucraina, val bene allora leggere la cronaca che segue. Perché qui, una volta tanto, il buonsenso ha vinto sull’ottusità, l’uomo sulle macchine, e la libertà del singolo sulla schiavitù della massificazione.
Petrov, breve storia di un eroe per caso
Stanislav Evgrafovic Petrov è ancora adolescente quando lascia la famiglia. Non che si senta portato verso la carriera militare, viene semplicemente allontanato da casa alla volta di quella nuova vita che la madre ha scelto per lui. Fa di necessità virtù e va verso la sua strada, senza alternative. Il giovanotto si fa uomo e si sposa, rivelandosi militare di prim’ordine – la madre ci aveva visto bene. Nel 1983 ha 44 anni e sulle spalle indossa le due stellette da Tenente Colonnello. Appartiene alla sezione spionaggio militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica e dirige il Centro di Allerta Precoce nei bunker di Serpukhov-15, un impianto da dove è coordinata la difesa aerospaziale dell’intero paese. Agli inizi di quello stesso anno, citando Guerre Stellari, Ronald Reagan ha definito l’Urss “Impero del Male”. E’ raro però che una guerra scoppi per un atto verbale, c’è sempre bisogno dei fatti. Così, il 1 settembre, l’aereo di linea KAL007 sconfina per errore nello spazio aereo sovietico e la replica di Mosca non è a mezzo comunicato stampa, ma con due missili aria-aria. Aereo abbattuto e 269 morti quasi tutti cittadini americani, fra cui un senatore: il mondo teme e attende l’inevitabile reazione statunitense.
La notte del 26 settembre, il Tenente Colonnello Petrov non sarebbe di turno, ma chi di servizio si ammala d’influenza – mai virus fu così benefattore dell’umanità – e lui, in qualità di ufficiale in maggior grado, è tenuto a sostituirlo. Sono le 00:14 ora di Mosca quando la sirena d’allarme inizia a intonare il suo macabro gorgheggio. I monitor del Centro di Allerta Precoce hanno segnalato una testata atomica in arrivo dagli Usa sulla Russia. Proviene dalla base militare di Malmstrom nel Montana. Quando però il Tenente Colonnello dà ordine di verificare coi dati dal satellite, gli addetti non sanno confermare. Per quanto OKO – sistema di controllo satellitare sovietico – sia il non plus ultra della tecnologia di quel periodo, le immagini di cui i russi dispongono non aiutano, poiché la testata atomica viaggia esattamente sulla linea che divide l’ombra dalla luce, la notte dal giorno. Da una parte del globo sta infatti sorgendo il sole, dall’altra è ancora buio. Passano pochi minuti e OKO segnala una seconda testata, poi una terza, una quarta, una quinta. La procedura detta che sia lanciata una risposta di 11.000 missili termonucleari intercontinentali. Così prescrive la M.A.D. (Mutual Assured Destruction), teoria che USA ed URSS hanno bilateralmente sposato nel dopoguerra: ad attacco nucleare segua attacco nucleare, nessun vincitore né vinto, ma guerra totale.
La mossa di Petrov
La tensione fra i 120 nel bunker sale. E sale nella misura in cui il Tenente Colonnello Petrov, invece di alzare la cornetta per informare il Cremlino che il contrattacco è già partito, traccheggia. Dieci minuti separano i missili dai confini nazionali. L’unico superiore che potrebbe venire in aiuto alla decisione da prendere è il ministro della Guerra. Ma il compagno ministro è a cena fuori, e quando si prova a rintracciarlo non può rispondere, perché ha alzato il gomito alla maniera russa e quella notte è fuorigioco. Non esistono scappatoie dall’hic et nunc, ineluttabile “qui ed ora” con cui è messo alla prova l’eroe di cui parlava Ernst Jünger, il ribelle. L’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere cosa sia giusto non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Al solo Stanislav Evgrafovic Petrov spetterà decidere per le sorti di un popolo, del nemico, e di ogni forma di vita terrestre, perché sarà Terza Guerra Mondiale. Lo stress che accompagna un momento del genere è tale che le gambe di Petrov, impreparate a reggere la fatica di Atlante, non sono più in grado di tenerlo in piedi e i suoi sottoposti devono sostenerlo. Se da un lato un militare come lui potrebbe obbiettare che 5 testate – seppure ciascuna 250 volte superiore alla singola bomba su Hiroshima – siano poche per far terra bruciata dell’Urss, non è da escludere si tratti di strategia diversiva per evitare un immediato contrattacco, colpendo poi con una seconda massiccia ondata missilistica. Possibile invece che OKO si sbagli?
Ogni ipotesi prende forma nella testa di Petrov. Così Stanislav, dopo aver severamente ponderato, comunica al personale nel bunker di ignorare l’allarme. Gli Stati Uniti non ci stanno attaccando – dice dall’interfono – il computer è in errore. E la sua scelta è vincente. Facile allora immaginarsi il tripudio con cui l’intero bunker portò in trionfo il Tenente Colonnello non appena dai monitor scomparve la minaccia di quel poker di testate atomiche. Facile anche credere ciò che la leggenda a questo punto tramanda, ossia che il Petrov si scolò in un sorso la prima bottiglia di vodka che gli misero sotto mano, e che poi dormì per le ventotto ore consecutive. Più difficile da figurarsi è il trattamento che i vertici del partito gli avrebbero riservato. Nonostante gli scienziati sovietici valutarono che a scatenare il falso allarme fosse stata un’irripetibile congiunzione astronomica fra sole, terra, sistema satellitare OKO ed equinozio d’autunno, Petrov fu sollevato dalla direzione del Centro di Allerta Precoce e mandato in pensionamento anticipato. Stanislav Evgrafovic Petrov pagò per aver disobbedito al protocollo militare che richiedeva il contrattacco, mettendo in dubbio, seppure con ragione, l’infallibilità della tecnologia sovietica. Ma, soprattutto, per aver deciso con il cuore e con la mente di uomo libero anziché col cieco automatismo di regime.
Solo uno, ma al momento giusto
Dei fatti di quella notte, fino a qualche tempo fa, nessuno sapeva nulla. Petrov non ne aveva fatto parola ad alcuno. Il suo nome e la sua storia saltarono fuori con la pubblicazione delle memorie di un ex ufficiale all’indomani del collasso delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Da lì, per Stanislav Evgrafovic Petrov, fu un susseguirsi d’interviste, riconoscimenti, onorificenze. Nel 2004 gli viene conferito il Premio Cittadino del mondo. Nel 2006 è premiato all’Onu di New York, dove tiene (controvoglia) un discorso. Nel 2011 riceve il premio German Media Award. Nel 2013 il Dresda Preis. Nel 2014 il regista Peter Anthony lo segue telecamera a mano nel bel film-documentario The Man Who Saved The World. L’uomo che ha salvato il mondo è passato a miglior vita nel 2017, lasciando un bilocale di periferia con le bottiglie scolate sul pavimento e le icone ortodosse alle pareti, il ricavato dei premi tutto elargito ai membri della sua famiglia. Indifferente a quelle luci della ribalta che hanno stregato le nostre altezzose viro star. “Ero solo uno al momento giusto nel posto giusto”, soleva dire.
Alessandro Staderini Busà