Roma, 13 gen – Lo abbiamo scritto in mattinata proprio su queste pagine: il fascismo è più vivo che mai. Tutti, in un modo o nell’altro, ne parlano. E non solo in Italia. Anche oltremanica, ad esempio, è forte l’interesse verso gli uomini che hanno movimentato la nostra scena politica e culturale tra le due guerre mondiali. In un recente articolo, infatti, The Guardian, testata fondata a Manchester oltre due secoli fa, ha approfondito – presentando “Breaking Lines”, mostra che si terrà alla Estorick Collection di Londra – la figura di Filippo Tommaso Marinetti. Ponendo un interessante quesito: e se il fascismo fosse un’opera d’arte futurista?
Marinetti e Musk
Definito come “l’Elon Musk dei primi del Novecento”, il poliedrico connazionale nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876 ha sintetizzato un certo “piacere per l’innovazione tecnologica” con “appetiti” nei confronti della politica illiberale. Secondo Jonathan Jones, autore del pezzo, “il ruolo di Marinetti nella creazione del mondo moderno è insufficientemente riconosciuto, presumibilmente perché era così controverso e offensivo nei confronti dei valori democratici mainstream”.
Lo stesso critico d’arte britannico delinea, dal suo punto di vista, un profilo ‘aggiornato’ di FTM. Figura brillante “gli sarebbe piaciuto X e avrebbe ammirato i post sensazionali del proprietario” perché “era un comunicatore acuto”. Continuando così: “Marinetti superò Musk politicamente. Mentre il fondatore di Tesla supporta gli sciocchi di estrema destra, Marinetti collaborò con il fascismo originale”.
Ora, al di là dei giudizi personali sulle attuali forze governative (chiaro il riferimento a Trump, più velato quello a Giorgia Meloni) e al netto di decontestualizzate e ben poco profonde letture storiche – i riferimenti a guerra e violenze sono ridondanti – l’articolo in questione si lancia in un’interessante osservazione. “Forse il fascismo è un’opera d’arte futurista”.
Il fascismo come opera d’arte futurista
In un dibattito, quello italiano, assuefatto dalla defascistizzazione forzata di tutto ciò che attiene all’esperienza mussoliniana (pensatori, avanguardie culturali, artisti, imprenditori, atleti) la conclusione di Jones arriva quasi inaspettata. Una chiave di lettura diversa dal “male assoluto” al quale andrebbero ascritti solamente morti, violenze e repressione di libertà individuali.
È vero, probabilmente la penna del britannico vorrebbe dare un sfumatura negativa nel descrivere il fascismo come opera d’arte futurista. Ma, per lo meno a chi scrive, poco importa. Perché il punto è centrato.
La bellezza della velocità
Uno ma mai “monolitico” – per usare lo stesso termine del sopracitato articolo – il movimento politico saldava attorno all’asse centrale le tante verghe del fascio. Così il futurismo, in tutte le sue diramazioni (che non furono solo letteratura, pittura e scultura) andava alla ricerca costante del dinamismo. Esaltazione del movimento che ritroviamo in quella rivoluzione che non va mai ad esaurirsi, nella Nazione considerata sempre da costruire.
Automobili ruggenti, preferite persino alla Nike di Samotracia: piaccia o non piaccia, l’Italia entrò nella modernità – conquiste sociali, creazioni infrastrutturali, bonificazioni ambientali, attivismo culturale – indossando una camicia nera. Ponendo così le basi per quella vitalità imprenditoriale che nel secondo dopoguerra darà vita al “miracolo economico”. È la bellezza della velocità che oggi in troppi confondono con i deliri propri della frenesia: sì, il fascismo è stato (anche) un’opera d’arte futurista.
Cesare Ordelaffi