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L’Inno di Mameli, pensiero e azione: perché il nostro canto è meraviglioso

by Marco Battistini
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Roma, 10 dic – Vergato da Goffredo Mameli e musicato poche settimane dopo dal meno conosciuto Michele Novaro, il 10 dicembre 1847 debutta pubblicamente – davanti a trentamila patrioti accorsi a Genova per una commemorazione anti asburgica – “Il canto degli italiani”. Una storia travagliata quella delle cinque strofe che trovano il proprio principio nel significativo “Fratelli d’Italia”. Dalle proibizioni sabaude fino allo stato di provvisorietà terminato solo nel dicembre 2017 con l’ufficializzazione de iure. A centosettantacinque anni dalla sua prima volta, l’inno nazionale ha ancora tanto da insegnarci.

Pensiero e azione

A partire dal suo autore. Prediletto di Mazzini, il poeta soldato racchiudeva in una grande anima la perfetta sintesi di pensiero e azione. “Siam pronti alla morte” e quando l’Italia chiamò al suo posto si fece trovare per davvero, offrendo l’estremo sacrificio al servizio della Repubblica Romana. Allora si combatteva contro eserciti stranieri in guerre guerreggiate, oggi il conflitto è culturale e si devono fronteggiare pericoli intestini alle nazioni europee.

Pensiero e azione dicevamo. Concetti che si cercano, termini che si intrecciano ancora. Illuminanti, in tal senso, le parole pronunciate da Eugenio Palazzini nel presentare “2030 Un’altra Europa è possibile”, primo appuntamento organizzato dal Centro Studi Nova Europa. Nel marzo scorso infatti il vicedirettore del Primato Nazionale ha fornito l’antidoto per disintossicarsi da una società che appiattisce il pensiero e rinnega l’azione. L’umanità che ci circonda non è più nemmeno liquida. Ologramma intangibile, sfuggente, impazzito in un perenne scontro virtuale che manca di profondità. Anche nel terzo millennio si arriva alla radice – quindi si sconfigge il nemico – solo tramite l’azione, ossia il costruire un qualcosa attraverso il pensiero.

Inno di Mameli, il testo: tra storia e politica

Ma torniamo all’inno. Il peso più importante, ovviamente, è quello del testo. Che – vale la pena ribadirlo – non si limita alle poche frasi cantate dai nostri cuori quando gareggia una rappresentativa azzurra.

Il primo richiamo è alla romanità. Un senso di marzialità dato innanzitutto dallo stringersi a coorte – decima parte di una legione. Scipione l’Africano riporta poi alla vittoriosa battaglia di Zama, quindi alla nostra naturale egemonia sulle acque del Mediterraneo. La Vittoria – a cui Roma era particolarmente devota – invece si offre, in un atto di volontà, all’Italia. Si prosegue nelle successive due strofe con un’esortazione tutt’oggi valida: il genovese invita i connazionali a lasciare da parte ogni campanilismo per riunirsi sotto un unico simbolo (la bandiera). Il Dio evocato negli stessi versi, più che a quello rappresentato in terra dal papato, si riferisce – forse anche inconsciamente – al nesso di civiltà che lega sacralmente terra, popolo e divinità.

Il genovese continua con riferimenti più storici: la battaglia di Legnano, le insurrezioni palermitane, la difesa della Repubblica di Firenze e l’omaggio al concittadino Balilla – la cui esistenza, a onor del vero, non è provata. Chiude, in un crescendo di motivazione dovuta all’evidente declino austriaco, omaggiando i polacchi a loro volta oppressi dai russi. Piccola curiosità: il roboante “Sì” finale, rinnovo del giuramento, non è opera di Mameli, bensì farina del sacco di Novaro.

L’inno di Mameli come terza via

In seguito all’unificazione del 1861 fu scelto però come inno nazionale la “Marcia reale”, decisamente più legata ai Savoia. L’opera di Mameli, in un paese ancora monarchico, risultava infatti troppo repubblicana nei contenuti. Eccessivamente tradizionale invece per socialisti ed anarchici. Un antesignano musicale della terza via che qualche decennio più tardi seppe elevarsi tra l’irreversibile crisi dello stato liberale e gli evidenti limiti della rivoluzione bolscevica.

Gli stessi patrioti accorsi in Liguria fecero sì che dopo quel 10 dicembre il nuovo canto si diffondesse “dall’Alpi a Sicilia” in maniera piuttosto veloce. Anche grazie al “canto degli italiani” andò aumentando la convinzione che – per dirla con Leopardi – il nostro paese avrebbe dovuto “fare da sé”. Una nazione fatidica, nata ancora prima del suo sorgere completo e protetta dagli dèi che rispettano solo la fierezza e la forza. Un testimone ora passato a noi. Abbiamo il cuore, abbiamo la mano: già l’ora suonò.

Leggi anche: “Fratelli d’Italia”, conoscete il vostro inno? E’ il momento di studiare l’opera di Mameli

Marco Battistini

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1 commento

Evar 10 Dicembre 2022 - 10:12

Musicalmente è uno spaccatimpani, i “fratelli” a cui si rivolge è la fratellanza massonica, il dio a cui si rivolge è il “loro” GADU. Francamente di un inno così io ne farei volentieri a meno.

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