Le Alpi sono quelle francesi, le modelle sono quelle scappate dagli atelier agghindati a postriboli dove era nato il nudo in fotografia, e che ormai soffriva – come tutta la fotografia – della rigida routine imposta dalle quattro mura. Uscire dagli studi di posa significò per “il nudo” evadere dalla clandestinità indotta dalla morale borghese e tentare di sublimarsi in forma d’arte. Si trattava di una battaglia che abbracciava la fotografia tutta, il nuovo mezzo che rivendicava il suo spazio fra pittura e scultura, le quali divennero di conseguenza referenti polemici e termini di paragone allo stesso tempo.
I fotografi ‘pittorialisti’ mutarono così temi ed effetti dalla pittura, e iniziarono ad operare en plein air come gli impressionisti. I primi nudi si insinuarono nelle scenografie naturali, per mostrarsi sempre più evidenti dopo la Prima guerra mondiale, sulle ceneri del conflitto e del pittorialismo stesso.
Le montagne diventano teatro di soggetti nudi mantati di un erotismo più sottile e più furbo. La donna nuda, in natura, diventa casta e pura per definizione. Si camuffa fra gli alberi e le vene delle rocce, cangia con la luce del sole e si copre delle stesse ombre del paesaggio, ora mimetizzandosi, ora sovrastandolo con quel realismo corporeo che il quadro non può dare.
La Vergine delle rocce di Leonardo perde l’aureola e scopre il seno, il Viandante di Friedrich diventa una donna che confonde le linee della sua schiena con quelle della pietra dominandola. Il corpo umano viene messo al centro di un rinascimento voyerista.
L’estetica è pagana, le Alpi di Meys e Arlaud sono l’Olimpo nel cuore di un’Europa popolata da divinità classiche. Ma la carne non è il marmo, e le ninfee in fotografia non evocano templi silenziosi ma visioni dionisiache. Fino al 30 novembre, al Museo della montagna.
Simone Pellico