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In morte di Emilio Riva. Il capitan Schettino della siderurgia italiana

by Salvatore Recupero
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RivaRoma, 05 mag – Correva l’anno 1975, un noto imprenditore finisce in carcere con l’accusa di omicidio colposo per un incidente sul lavoro. Era Emilio Riva scomparso pochi giorni fa. In pochi ricordano che, allora, scelse di fermare l’acciaieria di Caronno Pertusella esclamando: “Finché non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro”. Insomma prima io e poi gli altri. Ma chi era Emilio Riva, detto il ragiunatt (in milanese il ragioniere), ultimo capitano coraggioso dell’imprenditoria italiana? Riva nasce a Milano nel 1926 da una famiglia lumbard puro sangue. Nel 1954 fonda la ditta con il fratello Adriano. Con il commercio dei rottami ferrosi inizia la sua competizione contro i protagonisti storici dell’acciaio italiano (i Falck e l’Orlando). Ma soprattutto con L’Italsider, attività create nell’Iri da Oscar Sinigaglia. Il pubblico ancora dominava nei settori strategici e lui al massimo smaltiva un po’ di rottami. Da allora Riva ha sempre rilevato aziende in difficoltà. Nel 1964 una serie di concorrenti falliti e finiti all’asta. Nel 1975 alcuni siti della Valcamonica. Nel 1986, ai primi segnali del tracollo dell’economia pubblica, l’ingresso nel capitale della Italsider. Il galletto ambrosiano alza la cresta nel 1995 con le privatizzazioni. Lo Stato svende e lui la fa da padrone.

Ma chi ha permesso tutto questo? Semplice, la classe dirigente che ha avviato il processo di privatizzazione. La scusa era buona. Meno debito più competitività. Oggi, infatti, brilliamo per efficienza e i conti sono in ordine. Non c’è da stupirsi visto che il gruppo Riva nel 2006 ha versato 98 mila euro al Partito Democratico e 245 mila euro a Forza Italia. Anche i giornali lo elogiavano. Due esempi su tutti. Per Panorama “era un sobrio ragioniere” (27 agosto 2012). Per La Stampa: “un capitano d’industria lontano da lobby, salotti e consorterie, capace di mettersi dietro i fornelli e cucinare strepitosi risotti” (27 luglio 2012).

Poi la doccia fredda. O meglio i media scoprono l’acqua calda. Emilio Riva diventa l’untore perché si rifiuta di bonificare a spese sue l’impianto Siderurgico di Taranto. Il Ragiunatt, infatti, ha lasciato ai Tarantini un bel ricordo: inquinamento e cassa integrazione. Dal mese di luglio 2012 l’industria è stata sottoposta prima a provvedimento di sequestro degli impianti dell’area a caldo vincolato alla risoluzione delle criticità riscontrate in fatto di gestione dell’inquinamento, successivamente a commissariamento per mancato adempimento alle prescrizioni dell’AIA in materia di emissioni nell’aria. Il gruppo Riva aveva preso possesso dello stabilimento ex Italsider oggi Ilva nel 1995. L’inquinamento di Taranto non è certo solo colpa dei Riva. Anche se L’Ilva di Taranto rappresenta, infatti, il 75% del Prodotto Interno Lordo della Provincia. Davanti al provvedimento della magistratura i cittadini di Taranto sono stati posti di fronte ad un ricatto: o la busta paga o la vita. Riva ha preferito salire sulla scialuppa di salvataggio per mettersi in salvo. Chi doveva intervenire? Serviva un uomo come il capitano Gregorio De Falco che pronunciasse a chiare lettere queste parole: “Lei ha dichiarato l’abbandono nave, adesso comando io”. Insomma, fuor di metafora, serviva la Politica. Un progetto, una prospettiva. Così come avveniva con l’IRI. In fondo se nessuno regge il timone tutti si sentono autorizzati a farlo. Ma solo per interesse però. Quando il rischio sale, ognuno sale sulle scialuppe. In caso contrario, citando De Falco: “Forse ci salveremo, momentaneamente dal mare, ma passeremo l’anima dei guai”.

Salvatore Recupero

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