Roma, 26 apr — «Non amo la parola poetessa, preferisco la parola poeta, anche quando si tratta di una donna». Con queste parole Ludovica Ripa di Meana bacchetta la stucchevole mania politicamente corretta di declinare ogni professione al femminile. Dopo Beatrice Venezi (intervistata sul numero di aprile del Primato Nazionale) che ha «sconvolto» l’audience benpensante del Festival di Sanremo rivendicando il suo diritto di chiamarsi «direttore d’orchestra» e non «direttrice» o peggio ancora «direttora», è il turno di un poeta. Intervistata da Huffington Post e nonostante le acclarate simpatie sinistrorse, Ripa di Meana fa a pezzi la narrativa femminista con alcune eleganti, esemplari risposte.
Poeta e non poetessa
Secondo Ripa di Meana, «Poeta non è solo colui o colei che fa poesia: è anche colui o colei che è fatto dalla poesia, ne è attraversato, fino al punto di essere – a sua volta – poetato» Al contrario, «nella parola al femminile – poetessa – l’elemento verbale si perde. Ed è un peccato. Perché alla condizione della donna non aggiunge niente, mentre alla condizione da cui nasce la poesia toglie tantissimo».
Declinare tutto al femminile è cretino
Quando l’intervistatore le fa presente che «cantante» si può declinare anche al femminile, la donna risponde: «Per fortuna. Altrimenti chissà cosa avrebbero inventato. Ci sono parole improbabili declinate al femminile, altre che diventano subito comiche. Una parola vertiginosa come profeta al femminile diventa profetessa. E c’è poco da fare, è ridicola». Impossibile darle torto. «La pretesa di declinare tutte le parole al femminile è cretina — prosegue — Perché sostituendo una vocale con un’altra non si cambia la condizione della donna. Questo è il punto. Mentre la lingua si deturpa all’istante».
I comunisti? Di una noia mortale
Del femminismo, il nostro poeta, detesta «la mania di rendere ogni cosa uniforme». Al mondo, «non c’è un essere umano sovrapponibile a un altro, eppure l’ideologia della parità pretende di incasellare il mistero di ciascun individuo rinchiudendolo nello spazio di una quota. Lo trovo angusto». Sebbene di sinistra, e sebbene iscritta al Partito comunista all’età di vent’anni, Ripa di Beana confessa di essersela «data a gambe. I comunisti erano di una noia mortale, con la loro pretesa di essere sempre dalla parte del bene». Inoltre, «la violenza che il regime comunista sovietico ha usato contro gli scrittori è vile. Ha distrutto una delle più alte letterature del mondo. Ha fatto una strage – oltre che di oppositori, di minoranze, di gente sospettata di poco fervore – anche di poeti».
Cristina Gauri