Roma, 6 mar Sull’onda lunga del cinquantenario della morte di Julius Evola è uscito per Altaforte, con la curatela di Andrea Scarabelli e Adriano Scianca, Notturno europeo. Serate sull’orlo della catastrofe. Una raccolta di scritti e resoconti di viaggio nei quali il pensatore romano porta il lettore alla scoperta di ciò che di «vitale, intensivo e non-convenzionale» si poteva trovare nell’Europa del secolo scorso.
Notturno europeo, l’inaspettato e inconsueto Evola del «vivere lieve»
La geografia evoliana di Notturno europeo è ricchissima. Vienna, Parigi, Budapest, Berlino, Amsterdam, Belgrado, Bucarest, fino ai ghiacci delle Alpi e al sole di Capri. Un caleidoscopio attraverso un’epoca per noi forse già del tutto svaporata, un canone europeo fatto di réclame, tabarin, champagne e ragazze mezze svestite, che però ha una sua immutabilità nella ricerca dell’inconsueto, del «vivere lieve», degli amori e degli slanci improvvisi che popolano la notte. Già in Evola si avverte un certa nostalgia di esperienze davvero autentiche, di una spontaneità ormai perduta, mentre si fa largo uno stile sempre più stereotipato e «pariginizzato». Ma con ogni probabilità questo ne accentua il fascino decadente, quella malinconia sottile che così spesso si incontra nel fondo della notte, quella strana ambivalenza tra ottundimento dei sensi e il loro acuirsi, come per una scossa elettrica. Così quando qualcosa di inaspettato accade ed emerge dal cono d’ombra, il piacere che se ne trae diventa quasi violento, efferato. Come quando in una infima taverna del porto di Amsterdam una donna «immobile come una statua» viene disvelata in tutta la sua bellezza ed estraneità dalle prime luci dell’alba. Un’epifania onirica che stupisce e quasi spaventa.
Nel cuore notturno della modernità
Non abbiamo parlato di efferatezza a caso. Infatti, commentando Rivolta contro il mondo moderno, Geminello Alvi individua nell’efferatezza la cifra del pensatore romano: «Per nostra salute Evola è efferato». Quella stessa efferatezza che ritroviamo nella nobiltà «congiunta a qualcosa di duro, di lontano» della ragazza dell’episodio di cui abbiamo appena detto. Una spietatezza che permette a Evola di andare al fondo delle cose, senza riguardi di opinioni comuni, falsi miti o consolazioni. Prima fra tutte l’illusione del progresso, continua Alvi, «la storia di Evola è piuttosto un decadere, estinzione di quanto lega l’umano al divino, perdita del nesso primordiale, affiorare per scatti caotici del subumano». Contro questo degradare, vi è la ricerca di qualcosa di ulteriore: «A Evola importava il più che vivere, tenere inseparato l’io da un principio che vive sopra il cielo umano, come folgore». È qui che s’incontrano il «più che vivere» e il «vivere lieve», l’Evola ascetico, a cui spesso si abituati, e quello viveur della pagine di Notturno europeo. E poiché «l’assoluto non sta dietro, ma avanti», non è un caso che Evola lo ricerchi attraversando l’epoca, perfino nei suoi aspetti più mondani e dionisiaci. Fare il contrario significherebbe perpetuare un culto di ombre e reperti fossili, come scrive ancora Alvi: «Né serve a molto l’essere reazionari, ovvero rimpiangere il tempo più remoto, venerarne le rare archeologia, fingendo che non sia passato». Quasi come per una tridimensionalità del tempo, «l’aurora degli indoeuropei non è in un prima, ma al di là d’ogni prima o dopo. I tradizionalisti, disattenti, si perdono; recitano un passato archeologizzato, ma romantico; forzato in uno spazio-tempo moderno». Allo stesso modo, Ernst Jünger, in un famoso passaggio del Trattato del Ribelle, affermava: «Il bosco è ovunque, anche nei sobborghi di una metropoli».
Dalla «metafisica dell’episodico» di Evola alla «psicogeografia» di Guy Debord
Questa dimensione metropolitana, di «metafisica dell’episodico», viene esplorata anche nella post-fazione di Adriano Scianca, venendo messa in relazione con la «psicogeografia» di Guy Debord e dei situazionisti francesi. Un paragone, per certi versi, «impossibile», ma che dimostra come quelli raccolti in Notturno europeo siano qualcosa di più di semplici scritti d’occasione e della capacità di Evola di giocare con temi, sensibilità e approcci differenti. Un Evola che, come scrive Scianca, «attraversa le notti dissolute della decadenza europea da smaliziato viveur e armato di uno sguardo indagatore», capace di spiegare «l’alto attraverso il basso e il basso attraverso l’alto» e di «surfare sulla superficie degli eventi». La dimensione solare, olimpica, sovratemporale, si fonde nella sanità mediterranea del saper vivere e soprattutto riesce a trovare la sua attualizzazione perfino nel cuore notturno ed estremo della modernità, senza finire per essere irrigidita in schematismi astratti o smobilitanti. «Sorseggeremo del buon whiskey mentre tutto brucia, abbiamo stabilito che il futuro ci appartiene», così si chiudeva il Manifesto del Turbodinamismo. A quel tavolo, a bere whiskey e osservare il mondo in fiamme, Evola non potrebbe mancare.
Michele Iozzino