Roma, 1 ott – “L’Italia offre stipendi competitivi (che crescono meno rispetto al resto dell’Ue) e una forza lavoro altamente preparata”. E’ così che il governo cerca di attrarre investimenti esteri? Evidentemente sì, dato che la frase sopra riportata è presa dall’opuscolo “Invest in Italy”, redatto a cura del ministero dello Sviluppo economico e che porta, in bella vista, la firma del sottosegretario Ivan Scalfarotto. Un concetto che esprime sì la dura realtà dei fatti, ma allo stesso tempo offre una pessima indicazione della strada che l’esecutivo, nonostante gli annunci, vuole prendere in termini di politica industriale.
La brochure parte con l’elencazione dei punti di forza dell’Italia: una nazione manifatturiera (la seconda in Europa), con ampie possibilità di sviluppo, in posizione strategica. Da metà in poi partono però alcuni campanelli d’allarme. Il focus è sulle riforme firmate da Renzi, a partire dal Jobs Act che ha significativamente “deregolamentato i licenziamenti”, conseguendo l’obiettivo di “rendere il mercato del lavoro più flessibile, riducendo i rischi per le società”. Grazie anche a questa riforma, spiega la pubblicazione destinata agli investitori stranieri, “un ingegnere in Italia guadagna in media 38.500 euro, mentre negli altri paesi europei la media è di 48.500 euro”. Seguono ampie tabelle che mostrano come l’Italia sia in ultima posizione per crescita dei salari negli anni recenti, con percentuali in tutti i settori decisamente più basse (fin quasi la metà) rispetto ad altri membri della zona euro. Ecco messa nero su bianco la svalutazione domestica, che viene immediatamente dopo la distruzione della domanda interna che Monti si vantava di aver scientemente perseguito.
Se l’invito del governo è indirizzato a chi ha intenzione di far base operativa nella penisola allora non è del tutto fuori centro. L’investimento da oltreconfine però, in quanto in estrema sintesi debito nei confronti dell’estero stesso, non è la panacea di tutti i mali ma, anzi, rischia di rivelarsi un boomerang sul lungo termine. Specie se l’attrattività è data da un mix di riforme al ribasso e bassi stipendi. In questo modo, infatti, il risultato rischia di essere quello di proseguire nella svalutazione interna, che starà sì salvando (forse) l’eurozona, ma a costo di mettere fuori gioco noi stessi. D’altronde, che modello vogliamo per l’Italia? Uno da terzo mondo, fatto di salari ultracompetitivi a discapito di qualsiasi forma di Stato sociale e tutela del lavoro? Ma questa non è la via per chi vuole tornare ad essere una potenza manifatturiera, dato che non potrà mai competere con chi i salari li ha veramente da fame. A meno che il ministro Giuliano Poletti non voglia replicare il modello delle sue Coop ed applicarlo su larga scala. Con che risultati? Potenzialmente disastrosi, perché il costo del lavoro, i salari e gli stipendi non sono un fattore di competitività. O meglio, non sono i soli. Se così fosse, l’Africa avrebbe già da tempo superato l’Europa e in Cina non vi sarebbero solo produzioni in larga parte a basso e bassissimo valore aggiunto. A meno che l’obiettivo – ormai non più tanto celato – non sia proprio quest’ultimo.
Filippo Burla