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New York, 22 ago – In una dichiarazione rilasciata ieri, la Bank of America (BofA), la più grande banca commerciale degli Stati Uniti in termini di depositi e la più grande compagnia del suo tipo nel mondo, la cui storia curiosamente rimanda alla Bank of Italy fondata a San Francisco nel 1904, sostiene che “lo scenario globale è notevolmente peggiorato. I nostri economisti hanno recentemente ridimensionato le previsioni di crescita del prodotto interno lordo di Giappone, Messico, Colombia e Sud Africa, mentre crescono i rischi di decrescita della Turchia a causa dell’instabilità politica. Le esportazioni dall’Asia continuano a deludere, e le fuoriuscite di capitale alimentano le instabilità regionali”.
La pistola fumante, sempre secondo la BofA, potrebbe trovarsi nella complessa analisi condotta dalla stessa mega-banca sulle cause delle variazioni del prezzo del petrolio, ormai sceso a circa 40 dollari al barile (WTI americano). Negli ultimi mesi, la discussione è stata se il collasso, seguito dalla ripresa e la recente nuova caduta del prezzo dell’oro nero sia dovuta all’aumento di estrazione dell’Arabia Saudita, finalizzato a distruggere il più possibile dell’industria del petrolio di scisto americano, o al crollo della domanda come risultato del rallentamento dell’economia globale. Il risultato è illustrato in termini di contributi relativi dei due suddetti fattori al prezzo del petrolio (analisi BofA – Merrill Lynch): mentre per la maggior parte di questo scorcio di 2015 il “motore” del prezzo del petrolio è stata una combinazione sia dell’offerta che della domanda, il crollo più recente – almeno nell’ultimo mese e mezzo – è attribuibile quasi interamente al declino della domanda, tanto da prefigurare una recessione economica globale che da questa stessa settimana potrebbe essere considerata già in atto e che, se non riconosciuta apertamente potrebbe essere perfino acuita dal paventato aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve (Fed) entro la fine dell’anno.
Secondo il rapporto della Bank of America: “Il declino globale delle quotazioni azionarie, delle rese dei titoli di Stato e dei ritorni sugli investimenti produttivi nei mercati sviluppati dimostrano che il declino della crescita non riguarda solo i mercati emergenti. Questa situazione si è riflessa sulla dinamica del prezzo del petrolio in modo che, se a inizio giugno il ribasso era guidato soprattutto dall’abbondanza dell’offerta, conseguenza anche degli accordi con l’Iran, successivamente l’ulteriore caduta [del petrolio] rifletteva essenzialmente la debolezza della domanda”.
Tra i più recenti indici significativi che sembrano avvalorare l’allarme lanciato dalla BofA, quello appena uscito sulle attività manifatturiere negli Usa, che conferma le anticipazioni fornite su queste colonne (indice Empire) finendo al minimo da 22 mesi a questa parte, ai livelli dell’autunno 2013 ma anche a quelli del 2009, associato anche a una pesante depressione degli ordinativi e a un declino della relativa occupazione. Un segnale che assume un valore ancora più globale se si considera che ieri stesso è stato reso noto l’andamento del comparto manifatturiero cinese, sceso in luglio a 47,1 punti, il livello più basso da 77 mesi (oltre sei anni).
Sempre sul versante dell’economia reale, è proprio in queste ultime due settimane che l’indice BDI rappresentativo del livello del commercio mondiale via mare (quello prevalente) di materiali solidi (petrolio escluso, per esempio), ha decisamente invertito la rotta, passando da una moderata risalita iniziata in marzo a una rapida discesa verso la zona dei valori più bassi degli ultimi cinque anni.
Un venerdì nerissimo anche per le borse, questo 21 agosto, chiuso con il Dow Jones della borsa americana in perdita del 3,11%, preceduto dal tonfo delle borse europee tutte sotto per più del 2% (a Milano -2,83%), mentre gli indici cinesi hanno perso l’11% in cinque sedute.
In Europa, in particolare, l’indice azionario EuroStoxx 600, che rappresenta grandi, medie e piccole aziende nel settore utilities in 18 paesi della regione europea, tra cui l’Italia, è crollato di quasi il 6% questa settimana, la diminuzione più grande dal settembre 2011, riportandosi ai valori di fine gennaio di quest’anno, mentre peggio ancora ha fatto il principale indice europeo, il Dax tedesco, sceso del 7,4% nelle ultime cinque sedute.
Parallelamente, i rischi connessi ai titoli di Stato, e quindi la relativa rendita, di molti paesi europei sono schizzati verso l’alto negli ultimi giorni, con il Portogallo in testa seguito dall’Italia (spread risalito fino a quasi 130 punti base), e gli indici della volatilità dei mercati azionari sono balzati ai massimi del 2015 a Wall Street e a valori comparabili con i più elevati degli ultimi anni in Europa.
Se tutto questo immenso bagno di sangue è avvenuto nonostante le gigantesche iniezioni di liquidità sia della Fed che della Banca centrale europea, per lo più dirette alle banche, e più recentemente delle autorità cinesi per tamponare la caduta dei listini azionari, viene da pensare che qualcosa di molto profondamente sbagliato nella globalizzazione economica e finanziaria abbia assunto una forza tale che nessuna ricetta classica possa porvi rimedio, né tanto meno alcuna ulteriore liberalizzazione degli scambi in stile Tpp o Ttip.
Francesco Meneguzzo
New York, 22 ago – In una dichiarazione rilasciata ieri, la Bank of America (BofA), la più grande banca commerciale degli Stati Uniti in termini di depositi e la più grande compagnia del suo tipo nel mondo, la cui storia curiosamente rimanda alla Bank of Italy fondata a San Francisco nel 1904, sostiene che “lo scenario globale è notevolmente peggiorato. I nostri economisti hanno recentemente ridimensionato le previsioni di crescita del prodotto interno lordo di Giappone, Messico, Colombia e Sud Africa, mentre crescono i rischi di decrescita della Turchia a causa dell’instabilità politica. Le esportazioni dall’Asia continuano a deludere, e le fuoriuscite di capitale alimentano le instabilità regionali”.
La pistola fumante, sempre secondo la BofA, potrebbe trovarsi nella complessa analisi condotta dalla stessa mega-banca sulle cause delle variazioni del prezzo del petrolio, ormai sceso a circa 40 dollari al barile (WTI americano). Negli ultimi mesi, la discussione è stata se il collasso, seguito dalla ripresa e la recente nuova caduta del prezzo dell’oro nero sia dovuta all’aumento di estrazione dell’Arabia Saudita, finalizzato a distruggere il più possibile dell’industria del petrolio di scisto americano, o al crollo della domanda come risultato del rallentamento dell’economia globale. Il risultato è illustrato in termini di contributi relativi dei due suddetti fattori al prezzo del petrolio (analisi BofA – Merrill Lynch): mentre per la maggior parte di questo scorcio di 2015 il “motore” del prezzo del petrolio è stata una combinazione sia dell’offerta che della domanda, il crollo più recente – almeno nell’ultimo mese e mezzo – è attribuibile quasi interamente al declino della domanda, tanto da prefigurare una recessione economica globale che da questa stessa settimana potrebbe essere considerata già in atto e che, se non riconosciuta apertamente potrebbe essere perfino acuita dal paventato aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve (Fed) entro la fine dell’anno.
Secondo il rapporto della Bank of America: “Il declino globale delle quotazioni azionarie, delle rese dei titoli di Stato e dei ritorni sugli investimenti produttivi nei mercati sviluppati dimostrano che il declino della crescita non riguarda solo i mercati emergenti. Questa situazione si è riflessa sulla dinamica del prezzo del petrolio in modo che, se a inizio giugno il ribasso era guidato soprattutto dall’abbondanza dell’offerta, conseguenza anche degli accordi con l’Iran, successivamente l’ulteriore caduta [del petrolio] rifletteva essenzialmente la debolezza della domanda”.
Tra i più recenti indici significativi che sembrano avvalorare l’allarme lanciato dalla BofA, quello appena uscito sulle attività manifatturiere negli Usa, che conferma le anticipazioni fornite su queste colonne (indice Empire) finendo al minimo da 22 mesi a questa parte, ai livelli dell’autunno 2013 ma anche a quelli del 2009, associato anche a una pesante depressione degli ordinativi e a un declino della relativa occupazione. Un segnale che assume un valore ancora più globale se si considera che ieri stesso è stato reso noto l’andamento del comparto manifatturiero cinese, sceso in luglio a 47,1 punti, il livello più basso da 77 mesi (oltre sei anni).
Sempre sul versante dell’economia reale, è proprio in queste ultime due settimane che l’indice BDI rappresentativo del livello del commercio mondiale via mare (quello prevalente) di materiali solidi (petrolio escluso, per esempio), ha decisamente invertito la rotta, passando da una moderata risalita iniziata in marzo a una rapida discesa verso la zona dei valori più bassi degli ultimi cinque anni.
Un venerdì nerissimo anche per le borse, questo 21 agosto, chiuso con il Dow Jones della borsa americana in perdita del 3,11%, preceduto dal tonfo delle borse europee tutte sotto per più del 2% (a Milano -2,83%), mentre gli indici cinesi hanno perso l’11% in cinque sedute.
In Europa, in particolare, l’indice azionario EuroStoxx 600, che rappresenta grandi, medie e piccole aziende nel settore utilities in 18 paesi della regione europea, tra cui l’Italia, è crollato di quasi il 6% questa settimana, la diminuzione più grande dal settembre 2011, riportandosi ai valori di fine gennaio di quest’anno, mentre peggio ancora ha fatto il principale indice europeo, il Dax tedesco, sceso del 7,4% nelle ultime cinque sedute.
Parallelamente, i rischi connessi ai titoli di Stato, e quindi la relativa rendita, di molti paesi europei sono schizzati verso l’alto negli ultimi giorni, con il Portogallo in testa seguito dall’Italia (spread risalito fino a quasi 130 punti base), e gli indici della volatilità dei mercati azionari sono balzati ai massimi del 2015 a Wall Street e a valori comparabili con i più elevati degli ultimi anni in Europa.
Se tutto questo immenso bagno di sangue è avvenuto nonostante le gigantesche iniezioni di liquidità sia della Fed che della Banca centrale europea, per lo più dirette alle banche, e più recentemente delle autorità cinesi per tamponare la caduta dei listini azionari, viene da pensare che qualcosa di molto profondamente sbagliato nella globalizzazione economica e finanziaria abbia assunto una forza tale che nessuna ricetta classica possa porvi rimedio, né tanto meno alcuna ulteriore liberalizzazione degli scambi in stile Tpp o Ttip.
Francesco Meneguzzo