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La truffa del Recovery fund: ci prestano i nostri soldi in cambio di riforme (austerità)

by Filippo Burla
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Roma, 21 lug – Più di 200 miliardi. 209, ad essere precisi. A tanto ammontano le somme che il Recovery Fund – o, più correttamente: Next Generation Eu -, approvato dopo quattro giorni di serrate trattative in sede comunitaria, destina all’Italia. 209 sui 750 miliardi complessivi del piano fanno quasi il 28%: non una quota indifferente, tanto più che nella proposta originale della Commissione non si andava oltre i 170 miliardi, che dunque lievitano di quasi 40. Una pioggia di denaro, verrebbe da dire. Ma è veramente così?

Il 60% del Recovery Fund sono prestiti

Iniziamo da una banale constatazione: dei 209 miliardi, ben 127 sono pensati come prestiti. Più del 60% delle somme arriveranno dunque sotto forma di finanziamenti, i quali fino a prova contraria (non sarebbero altrimenti prestiti) devono essere restituiti. A tassi sicuramente bassi e magari su una prospettiva di lungo termine, ma la contabilità – che nella sua forma moderna è stata, per inciso, inventata in Italia nel ‘400 – non mente: tanto arriverà, tanto andrà restituito.

Le risorse a fondo perduto che non sono a fondo perduto

Il resto della provvista stanziata dal Recovery Fund entra dunque del conto delle risorse “a fondo perduto”. Peccato che di fondo perduto vi sia veramente poco. Il motivo è, ancora, banalissimo: l’Ue non dispone ad oggi di risorse proprie immediatamente destinabili allo scopo, né – per precisa disposizione dei trattati – controlla una banca centrale che possa finanziarla al bisogno.

Bruxelles dovrà così rivolgersi al mercato, emettendo titoli (che magari potranno pure essere acquistati dalla Bce, intendiamoci – ciò non sposta di una virgola la questione) a tassi sicuramente bassi, possiamo pure azzardarci a chiamarli Eurobond. Comunque li si consideri, una cosa è certa: prima o dopo andranno rimborsati. E come? Le strade sono due. La prima è quella rappresentata dai contributi degli Stati membri, che vedono l’Italia da tempo in posizione di contributore netto – versiamo più di quanto riceviamo – in media per 5 miliardi l’anno. In virtù della quota parte di risorse a fondo perduto a noi destinabile è plausibile – glielo concediamo – che il differenziale possa ridursi, ma sicuramente non azzerarsi. La seconda è quella di dotare l’Ue di risorse proprie: le conclusioni del Consiglio Europeo parlano di nuove imposte vuoi sulla plastica (già sperimentata in Italia con effetti negativi), vuoi sulle transazioni finanziarie, vuoi sulle emissioni di anidride carbonica. Come se sentissimo la mancanza di un’ulteriore stretta fiscale a gravare sulle nostre tasche.

Condizioni, dunque riforme: quindi austerità

Solo questo il dazio da pagare? Certo che no, perché le risorse a fondo perduto – che lo ripeteremo fino allo sfinimento: a fondo perduto non sono – verranno anche collegate al rispetto di tutta una serie di condizioni.

L’accesso al Recovery Fund sarà infatti vincolato alle riforme che uno Stato membro si impegnerà a porre in essere, in special modo “per quanto riguarda – si legge sempre nelle conclusioni del Consiglio – i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese”. Vediamole, queste raccomandazioni specifiche. Le ultime prima della pandemia (risalenti quindi al maggio 2019) erano abbastanza chiare e prescrivevano per l’Italia la necessità, fra le altre cose, di “assicurare una riduzione in termini nominali della spesa pubblica primaria netta dello 0,1% nel 2020″ (per via che non è già stata ridotta a sufficienza: chiedere al sistema sanitario nazionale per conferma), di “utilizzare entrate straordinarie per accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/Pil” e infine di non tralasciare un ulteriore giro di vite sul sistema previdenziale “al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica”.

Non è neppure detto che tutto ciò basti. La Commissione, ricevuto il piano delle riforme, avrà due mesi per esprimersi, ma un giudizio potrà anche essere espresso dagli altri Stati membri che, qualora riuscissero a mettere insieme una maggioranza qualificata, potrebbero bocciarlo. Non un potere di veto, ma un freno d’emergenza sia pur depotenziato: non solo ci prestano (o ci rendono) i nostri soldi, pure in clamoroso ritardo – non arriveranno (a rate) prima del 2021, mentre la nostra economia ne ha bisogno immediato – ma ci dicono pure come dobbiamo spenderli.

La soluzione si chiama(va) Bce

Eppure, per evitare quattro inutili giorni di trattative, poteva bastare potenziare l’esistente, facendo ciò che il resto del mondo – ed in misura simile la stessa area euro – sta facendo da mesi. Parliamo della monetizzazione del debito da parte della banca centrale, strada in parte seguita dalla Bce con il piano Pepp, potenziato con oltre 600 miliardi aggiuntivi non più tardi del mese scorso. Una forma di finanziamento agli Stati diretta, senza condizioni, a costo praticamente zero dato che gli acquisti di titoli di Stato sono condotti in larghissima misura (l’80%) dalle banche centrali nazionali che, a consuntivo, girano poi ai rispettivi governi i proventi (gli interessi) della gestione dei portafogli così costituiti. Il proverbiale uovo di Colombo, ma non per quell’architettura ormai decotta che si chiama eurozona. E che il governo italiano – Roberto Gualtieri in testa – continua a difendere: a farne le spese, dato che ora (nel 2021, forse, chissà, ma che volete che sia) arriverà la “potenza di fuoco” in salsa europea e quindi non ci sarà bisogno – secondo il titolare dell’Economia – di allargare i cordoni della borsa, sono i nostri imprenditori e i nostri lavoratori in cassa integrazione.

Filippo Burla

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