Roma, 19 nov – Diminuisce la domanda di greggio mentre ne aumenta l’offerta. Se il “mercato” fosse una struttura efficiente, archivieremmo il drastico calo delle quotazioni dell’oro nero ascrivendolo ad un qualsiasi modello macroeconomico.
Partiamo dai fatti: l’indice Brent ha perso il 20% del suo valore da quest’estate, il 30% rispetto ad un anno fa. Il petrolio di riferimento europeo si attesta oggi a circa 80 dollari il barile, quando quest’estate prezzava attorno ai 100 e segnava un massimo lo scorso anno a quota 110. La tendenza è in continuo calo. Spiegare questo andamento attraverso una banale curva di domanda è tuttavia sbagliato. Anzitutto perché i consumi in Europa sono in calo da anni. In secondo luogo, il mercato del petrolio è tutto tranne che un mercato di concorrenza perfetta. In ultimo, le quantità di carta e di transazioni finanziarie legate al barile pesano di più rispetto ai costi diretti e indiretti sostenuti dai produttori per l’estrazione.
Un mercato con i suoi crismi, quindi, non esiste. Serve andare più a fondo. Non è una novità che attorno al petrolio si sia mosso il mondo negli ultimi quattro-cinque decenni. Allo stesso modo, non usciamo dal seminato se osserviamo che nel novero dei paesi produttori -riuniti principalmente nell’Opec– siano più i momenti di attrito che quelli di connubio. E proprio questa ipotesi sembra essere alla base della situazione attuale, in cui l’Arabia Saudita non fa marcia indietro sui picchi di produzione.
«Certi Paesi hanno aumentato la produzione dopo l’uscita dal circuito di altri Stati produttori. Per loro è ora difficile ridurla con l’obiettivo di stabilizzare il mercato e inventano scuse per giustificare le loro azioni», ha affermato il ministro iraniano del petrolio, Bijan Namdar Zanganeh. L’Iran è solo uno dei paesi che mostrano alcune sofferenze nel bilancio pubblico a causa dei bassi prezzi. Non il più in crisi, se confrontato ad esempio al Venezuela che rischia di andare diritto verso il fallimento.
Nell’intricata vicenda c’è però un convitato di pietra. L’Opec è senza dubbio l’organizzazione più importante fra i paesi esportatori di petrolio, potendo con le sue decisioni influenzare larga parte dei prezzi di vendita. A scapito anche di chi non fa parte di questo ristretto oligopolio, pur essendo un produttore importante. Ogni riferimento alla Russia è puramente intenzionale, in specie di fronte alle sirene che mostrano una decisa virata di Mosca ben lontano dai livelli di crescita registrati fino a poco tempo fa. Il bilancio della Federazione si sta facendo sempre più traballante e i corsi di Brent e Wti, che influenzano peraltro anche gli andamenti nel prezzo del gas, non aiutano a migliorare le previsioni che parlano di stagnazione o, al più, di fiacca crescita.
C’è già un precedente e risale al 1985, quando l’Arabia Saudita -già all’epoca importante e fedele alleato degli Stati Uniti- attuò una politica di aggressiva riduzione del prezzo del barile. L’Unione Sovietica, anch’essa al di fuori della cerchia Opec, fu costretta in ginocchio sul piano della bilancia commerciale. Che le mosse odierne di Riyad siano, come allora, parte di una guerra commerciale in corso sotto traccia?
Filippo Burla