Tripoli, 26 giu – La Libia che affronta le prime elezioni della nuova Camera dei Rappresentanti è un paese solo sulla carta. Dal punto di vista istituzionale, le funzioni dello Stato sono operative. Ma la realtà dei fatti è ben diversa: dalla cosiddetta “rivoluzione” che ha portato alla caduta di Gheddafi è riemersa la tradizionale fragilità del sistema politico libico. Una fragilità alimentata dalla secolare rivalità tra le centotrenta tribù che compongono il suo variegato sistema sociale, cui si aggiunge una più “moderna” contrapposizione tra islamismo radicale e progressismo laico. Due conflitti che il regime di Gheddafi aveva in qualche modo sopito, imponendo un’unità inedita nella storia della Libia, e che sono riemerse in tutta la loro forza disgregatrice alla sua morte.
A tre anni dal crollo del regime è difficile pensare che un qualsiasi governo democratico possa mettere ordine nel caos di milizie, eserciti e tribù armate che scorrazzano in lungo e in largo tentando di mettere a segno qualche successo nel complesso sistema di equilibri che si è venuto a creare con la fine del centralismo gheddafiano. In poco più di un anno si sono susseguiti alla guida del governo ben quattro premier, privi di potere effettivo o sollevati prima di poter iniziare a governare.
Dopo che la Corte Suprema della Libia ha definito “incostituzionale” l’elezione del premiere Ahmeed Maiteeq (insediato dai Fratelli Musulmani senza l’appoggio di una maggioranza qualificata) e implicitamente dato ragione ai militari golpisti che ne hanno deposto il governo, la Libia torna al voto. Impresa ardua, secondo gli osservatori internazionali, dal momento che in Cirenaica e nel Fezzan l’esercito del Generale Khalifa Haftar e le milizie islamiche si affrontano in violenti scontri con decine di morti ogni giorno. In queste aree lo Stato non è operativo, e difficilmente i residenti saranno in grado di recarsi ad esprimere il loro voto.
Gli sponsor internazionali della rivoluzione, Stati Uniti in primis, sembrano sempre meno in grado di fronteggiare il collasso delle istituzioni libiche. Per quanto riguarda il governo di Washington, le uniche misure prese paiono quelle a difesa delle rappresentanze diplomatiche e degli impianti di estrazione, onde evitare rapimenti (ormai praticamente all’ordine del giorno) e danneggiamenti alle infrastrutture petrolifere. E il crollo verticale che le esportazioni libiche di idrocarburi hanno subito nel corso dell’ultimo anno (-86%, per un totale di sei miliardi di dollari in meno) la dice lunga su quanto lontane siano le prospettive di ripresa. Se si considera poi che le entrate petrolifere garantiscono il reddito a un milione di dipendenti pubblici, adesso praticamente disoccupati, il rischio di un collasso economico appare ancora più pericoloso.
Per adesso i buchi di budget vengono rimpinguati con il sostanzioso lascito del defunto dittatore: 132 miliardi di dollari dei quali, in tre anni, ne sono stati spesi 22. E con un volume di importazioni superiore ai 30 miliardi l’anno e sussidi sociali per 650 milioni di dollari la bilancia fiscale della Libia pende pericolosamente verso il default.
Francesco Benedetti
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