Berlino, 24 set – Non c’è alcun mercato in fibrillazione, questa volta. Lo spettro della Francia – dove Marine Le Pen ad un certo punto sembrava ad un soffio dalla vittoria – si ferma alla linea Maginot (al contrario) del confine con la Germania, dove le elezioni si svolgeranno in assoluta tranquillità. Prima certezza, dunque: la Merkel si avvia a passi da gigante verso l’ennesimo cancellierato, record storico in Europa di permanenza al governo per quella che, secondo Forbes, è ininterrottamente dal 2011 la donna più potente del mondo.
Accanto a questa sicurezza, altre due. Anzitutto che Martin Schulz, il candidato che doveva riportare l’Spd alla leadership nel Bundestag, raccoglierà l’ennesima magra figura della sua vita politica. Stiamo parlando di un partito che, ai tempi d’oro di Gerhard Schröder, superava il 40%, salvo crollare al 23 delle politiche del 2009 e al 25% dell’ultima tornata. E a questo giro, stando ai sondaggi, la percentuale potrebbe perfino tornare a calare, nonostante il divario con la Cdu/Csu si sia dimezzato nelle ultime settimane. Non si ripeterà dunque il cappotto del 2013, quando i cristiano-democratici staccarono di oltre il 15 punti gli amici/nemici, anche perché la Merkel, nonostante la solidità della leadership, è anch’essa in deciso arretramento: lontana da quel 41% che consacrò il suo terzo mandato, viene accreditata attorno al 35% dei consensi. Un calo non indifferenze per una Germania che, numeri alla mano, è il Paese che meglio di tutti ha centrato la ripresa post-crisi.
Cosa succede allora? Veniamo così alla terza certezza: Alternative für Deutschland, la formazione di destra sovranista, è il principale candidato alla terza piazza e alla guida dell’opposizione nel parlamento berlinese. A poca distanza insegue la Linke (estrema sinistra), che dovrebbe però perdere il terzo gradino del podio conquistato un po’ a sorpresa nel 2013. Parliamo di due partiti, complessivamente rappresentanti non meno del 20% dell’elettorato, che raccolgono con prepotenza tutte le contraddizioni della Germania. Perché se è vero che la crescita è forte e consolidata, è altrettanto vero che l’austerità non è solo un’imposizione agli altri membri dell’Ue ma, soprattutto, interna: investimenti ai minimi storici (dalle strade alle scuole passando per ponti e ferrovie, le infrastrutture avrebbero bisogno di manutenzioni che l’autoimposta ristrettezza di bilancio impedisce), stipendi non al passo col costo della vita e disparità di trattamenti salari fra diverse realtà e regioni, mini-jobs forma ormai strutturale di riduzione del costo del lavoro. Il tutto per inseguire i sogni mercantilisti dell’industria tedesca, fatti di svalutazione interna ed esportazioni. Una strategia che però, sul lungo termine, non sta pagando. E che l’AfD – molto più della Linke, che “pesca” in un elettorato che su temi caldi come quello dei profughi o sedicenti tali è ancora più a sinistra della Merkel – sta cercando, con successo, di capitalizzare.
Nicola Mattei