Molto meglio per la censura sul fronte YouTube, più reattivo con il 90 per cento. Numeri di cui si era lamentata, in Italia, anche la “presidenta” Laura Boldrini, arrivata fino al punto di vergare una lettera aperta con destinatario Zuckerberg, invitandolo, con tono perentorio, a censurare di più i contenuti non politicamente corretti. Ma il legame tra il ministro Mass alla nostra “presidenta” della Camera non si esaurisce solo con la caccia alle streghe sui social: nel 2016, l’esponente tedesco ha chiesto di mettere al bando la pubblicità sessista che «riduce le donne o gli uomini a oggetti sessuali», ottenendo solo un grosso buco nell’acqua, visto che tutte le autorità in materia lo hanno ignorato. Sulla questione delle fake news rischia invece di ottenere qualche risultato, dato che, in Germania come altrove, la tentazione di ostacolare i partiti populisti e zittendoli sulla rete è forte, molto forte. E quasi sorprende che nella politicamente correttissima Germania siano comunque molte le voci dissonanti.
Gli editori insorgono, rifiutandosi di rivestire il ruolo di cani da guardia di Zuckerberg. «Non siamo l’unità di correzione di Facebook», è l’accusa di Karola Wille, presidente del consorzio delle emittenti pubbliche tedesche Ard. Non sembra, tuttavia, che le obiezioni poste siano di tipo «etico», ma commerciale. Gli editori – a cui andrebbe affidato il compito di fare fact-checking, ovvero di verificare cosa è bufala e cosa no – lamentano piuttosto una mancanza di dialogo con l’azienda di Menlo Park. E anche una non collaborazione economica: chi paga i giornalisti e gli addetti ai lavori che dovranno diventare impiegati del ministero della Verità targato Facebook? Non quest’ultimo, ovviamente. Ecco quindi che la «fondamentale» battaglia per la trasparenza rischia di saltare per questioni di vil denaro.
Giuliano Lebelli
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