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Siria: la realpolitik dietro la risoluzione del Consiglio di Sicurezza

by La Redazione
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World Leaders Attend 66th United Nations General AssemblyE’ soprattutto da un punto di vista politico che va letta ed analizzata l’approvazione avvenuta pochi giorni fa, in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, della risoluzione sullo smantellamento degli armamenti chimici in possesso del governo siriano.

Infatti la questione centrale non è rappresentata tanto dall’improbabile messa in sicurezza di queste armi, quanto piuttosto dalla ripresa del dialogo tra Washington e Mosca dopo mesi di “guerra fredda” sul dossier siriano. Appare ormai evidente come il comune obiettivo di arginare gli effetti di questo conflitto, che sempre più rischia di tracimare dai propri confini coinvolgendo l’intero Vicino Oriente, abbia spinto il Presidente Obama ad appoggiare l’iniziativa diplomatica del Ministro degli Esteri russo Lavrov, pur consapevole degli evidenti limiti.
Dal punto di vista tecnico-militare molti osservatori hanno sottolineato la difficoltà, se non la vera e propria impossibilità, di realizzare questo tipo di disarmo, anche tenendo conto del risibile limite di tempo entro cui il tutto dovrebbe avvenire: la prima metà del 2014.
Se operazioni di questo tipo, che richiedono l’intervento sul campo di decine di esperti e tecnici, risultano estremamente complesse in circostanze ordinarie, si può facilmente immaginare quali siano gli ostacoli cui si va incontro in un contesto bellico come quello siriano, con parte dei depositi segreti probabilmente dislocati anche in zone sotto il controllo dei cosiddetti ribelli, più che mai interessati a far fallire l’iniziativa.

Viene allora da domandarsi perché le parti in causa abbiano deciso di portare avanti questo tipo di opzione.
Se dal punto di vista russo si può senz’altro parlare di un’importante vittoria diplomatica, è soprattutto il comportamento di Washington che merita qualche riflessione in più. E’ sempre più evidente la volontà dell’Amministrazione Obama di evitare un coinvolgimento diretto in uno scenario dagli esiti imprevedibili, anche a costo di alimentare le accuse degli avversari politici di debolezza ed indecisione. Un’opzione, quella militare, d’altronde sconsigliata anche dagli esperti del Pentagono oltre ad essere avversata da un’opinione pubblica molto più preoccupata dalla crisi economica e comunque sfiduciata dopo gli evidenti fallimenti in Afghanistan ed Iraq.
Altro importante elemento da tenere in considerazione riguarda il ri-orientamento strategico avviato dal Presidente Obama, che, in chiara discontinuità con il suo predecessore, ha messo l’area del Pacifico in cima all’agenda geopolitica del Paese, disimpegnando forze proprio da quella vasta e complessa area che i neo con di Bush jr. avevano ribattezzato “il Grande Medio Oriente”.
Per meglio comprendere quale sarà il probabile atteggiamento di Washington nei prossimi mesi, può essere utile far riferimento a quanto scritto da Edward Luttwak sul New York Times lo scorso 23 agosto. L’influente politologo nell’occasione ha enunciato con la sua solita cinica chiarezza i due scenari che il Presidente deve assolutamente evitare si realizzino: la sconfitta di Assad o la vittoria di Assad. Nel primo caso, il rischio sarebbe quello di vedere la Siria scivolare nelle mani delle sempre più numerose ed agguerrite milizie jihadiste, nel secondo caso una vittoria di Damasco rappresenterebbe di riflesso una vittoria di Teheran e quindi un suo rafforzamento in termini di prestigio a scapito degli alleati regionali degli Stati Uniti, in primis l’Arabia Saudita. Quale dovrebbe essere allora l’opzione da portare avanti? “An indefinite draw”, un pareggio a tempo indeterminato. Come? Presto detto: aumentando o diminuendo i rifornimenti di armi e l’appoggio logistico sul campo ai ribelli a seconda di come volgono gli equilibri sul campo in un dato momento. Lasciare insomma che le parti in causa si dissanguino reciprocamente. Il tutto ovviamente sulla pelle della popolazione civile siriana. Più chiaro di così.

Massimo Frassy

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