Washington, 14 ott – Lo scorso 11 ottobre la JP Morgan Chase, illustre istituto finanziario americano, ha annunciato di aver messo in vendita tutti i titoli di debito Usa a breve scadenza in suo possesso. La notizia fa il bis con l’annuncio fatto il giorno precedente dalla Fidelity Investments, uno dei più grandi gruppi finanziari del pianeta, la quale ha fatto sapere che non avrà più alcuna parte di debito americano in prossimità del momento in cui gli Stati Uniti potrebbero sfondare il tetto di 16.700 miliardi di dollari. Ed il momento ni questione è tutt’altro che lontano. Giovedì prossimo, infatti, i fondi di emergenza a disposizione del governo di Washington si esauriranno. Se per quella data il Congresso avrà autorizzato il governo a superare il limite del debito, gli Usa si salveranno dall’insolvenza, evitando un secondo “giovedì nero”. E tuttavia non faranno che allontanare lo spettro di una seconda crisi economica. Ma andiamo per gradi.
Il problema più impellente, come dicevamo, è garantire al governo federale la possibilità di spendere. Per far questo la Costituzione prevede una legge di bilancio che permetta, in questo specifico frangente, di superare la soglia di indebitamento. Normalmente questo genere di operazioni viene compiuto entro il 30 settembre, ultimo giorno dell’anno fiscale. Qundo questo non si verifica, il bilancio americano entra nel cosiddetto “Shutdown“, una specie di “stallo” durante il quale le spese sono ridotte al minimo e, in assenza di risorse a disposizione, si ricorre a fondi di emergenza. Nella storia del paese si sono già verificati 17 shutdown, della durata media di tre giorni. Il più lungo ne durò ventuno, a cavallo tra il ’95 e il ’96. Tornando ad oggi, il giovedì prossimo le casse federali saranno vuote. Se il Congresso non autorizzerà gli Stati Uniti ad indebitarsi ulteriormente, si arriverà ad un default. Ciò significa che Obama dovrà annunciare ai mercati che non sarà possibile pagare gli interesse sui titoli di debito, con i quali gli Stati che non posseggono sovranità monetaria finanziano le loro spese.
A quel punto come scrive Andrea Marinelli de Il Giornale: “Il Paese diventerebbe insolvibile e partirebbero una serie di pericolose reazioni a catena. Gli Stati Uniti potrebbero precipitare in una nuova crisi economica, bloccando la lenta ripresa europea ed italiana. Se gli Stati Uniti dichiarassero il default, inoltre, potrebbero risentirne anche i titoli di Stato italiani. […] il mancato aumento del tetto del debito potrebbe danneggiare pesantemente sia l’economia americana che quella mondiale. Le conseguenze di un default sull’economia globale sarebbero così gravi che nessuno crede possa succedere davvero”. Infatti, soltanto la convinzione che gli Usa “non possano fallire”, tiene le borse in equilibrio. Sul Sole 24 Ore l’eventualità è così commentata: “Innazi tutto è bene precisare: gli Usa sono andati vicini ma non sono mai andati in default. Quindi non esiste un precedente storico. Un fallimento pertanto equivarebbe a finire in un territorio inesplorato, fuori da basi statistiche. In caso di default i tassi non potrebbero che salire aggravando ulteriormente la spirale sul debito (più interessi) colpendo indirettamente anche i mutuatari perché negli Stati Uniti la maggior parte dei prestiti ipotecari è agganciata all’andamento dei titoli di Stato a 30 anni. Si farebbero certo meno mutui (con prospettive a cascata sul mercato immobiliare e sui prezzi della case) anche perché l’economia potrebbe scivolare agevolmente in recessione”.
Qualora invece il Congresso approvasse l’aumento del debito, la catastrofe improvvisa verrebbe evitata. Ma si riproporrebbe nel giro di qualche anno. Infatti, a differenza dei paesi europei (Italia in primis), gli Stati Uniti non avrebbero nemmeno le risorse finanziarie interne per rinnovare il suo debito, perché anche l’economia privata risulta ultra-indebitata. Dovrebbero rivolgersi ancora all’estero, facendo ulteriormente perdere di credibilità alla loro moneta. Cha già esce da un periodo di pesante svalutazione. Il rischio, quindi, è che i mercati smettano di comprare il debito americano. Allora, secondo Giuseppe Timpone del Corriere: “Dopo decenni di vita da cicale, anche gli americani potrebbero conoscere il significato concreto del termine austerity”.
Un mese fa, il 16 Settembre scorso per la precisione, uno dei più importanti investitori del mondo, Ned Goodman, ha dichiarato di non credere più alla solidità dell’economia americana. In un intervento alla Toronto Resource Investment Conference ha affermato: “Il dollaro non sarà più una valuta di riserva. Gli Usa perderanno il privilegio di stampare moneta a go-go, senza rendere conto a nessuno“. Parole confermate poi in un’intervista a Bloomberg. Goodman parte da una constatazione e da un’apparente provocazione: negli anni Trenta, tutti nel mondo volevano dollari. Dietro ai dollari c’era l’oro. Oggi, il dollaro non rappresenta più nulla, se non la scritta “In God We Trust” (“Abbiamo fiducia in Dio”). “In Dio”, afferma Goodman, “ma non certo in un pezzo di carta”. A sostegno di questo, ha riportato un indicativo aneddoto: “Tempo fa, a pranzo con il finanziere Warren Buffett, gli chiesi cosa accadrebbe se i cinesi decidessero tutto ad un tratto di convertire i bond Usa in dollari. “Non accadrà mai”, rispose Buffett. “Perché?”, chiesi io. “Perché nessuno rinuncia a obbligazioni che danno il 3% all’anno di interessi per prendersi in cambio i dollari, che possono offrire la sola scritta “In God We Trust””.