Roma, 3 lug – Proprio su queste pagine vi abbiamo parlato nel pomeriggio di ieri del Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. In particolare di come l’approvazione del suddetto documento ministeriale – tra esplicite soluzioni immigrazioniste ed eutanasia territoriale – abbia firmato la condanna a morte dell’Italia profonda. Delle sue zone sì dimenticate, ma non per questo – storicamente e in prospettiva – meno importanti rispetto alle aree più popolate.
Il Paese profondo e le grandi città
Molto probabilmente (ahinoi) chi ha lavorato al Psnai 2025 non conosce – o, peggio ancora, si è dimenticato – l’essenza della Nazione che si realizza nella comunità organica di destino. Sebbene un insieme disordinato di atomi sia il sogno bagnato di molti, da questa parte del mondo l’uomo si è organizzato radicandosi per strutture simili a cerchi concentrici: famiglia, villaggio, città, metropoli.
Nell’Italia dei mille campanili, delle innumerevoli differenze unite da quel sentire comune, la vitalità dei piccoli borghi – in un discorso quindi strettamente collegato con la questione della natalità – con la mobilità interna si trasformava in linfa vitale per le grandi città. Ma negli ultimi decenni qualcosa in questo virtuoso ciclo si è rotto.
La Piccola Italia
In “Borgo Italia” un veloce libro di qualche anno fa edito da Eclettica e firmato dall’Istituto Stato e Partecipazione, Clemente Ultimo – curatore dell’opera collettanea – l’ha definita “morte della Piccola Italia”. È la desertificazione umana, sociale ed economica che colpisce parte delle vallate alpine, praticamente tutta la dorsale appenninica e le isole. Aree interne che il piano strategico vorrebbe lasciare al loro destino.
Stiamo parlando di uno spazio fisico dove secondo le ultime stime vivrebbero comunque 13 milioni di connazionali, ossia il 22% della popolazione. Lontane dal centro, ma da sempre in grado di esprimere grandi capacità. Basti pensare che, come ricorda il suddetto volume, il 92% delle produzioni tipiche nazionali nasce nei piccoli comuni.
L’abbandono? Non è mai una scelta neutra
Ovviamente senza servizi (scuole, trasporti, possibilità di digitalizzazione) e infrastrutture – su tutte gli ospedali – non si può crescere. Pezzo dopo pezzo sparisce così parte del nostro patrimonio storico e culturale: i particolarismi locali, le tipicità artigianali, le eccellenze agroalimentari. Senza contare i danni al capitale infrastrutturale (abitazioni, anche secolari, vuote) e quelli legati alla mancata manutenzione del territorio – esatto, la presenza dell’uomo ordina e custodisce l’ambiente. L’abbandono non è mai una scelta neutra.
Nel contesto di una Nazione tra le più industrializzate al mondo – ed è giusto così, in quanto è la manifattura a creare ricchezza – si dovrebbe parallelamente badare al recupero funzionale della Piccola Italia.
Oggi la Piccola Italia, domani millenni di storia
Concordiamo, non potremmo vivere di solo turismo. Ma quest’ultimo potrebbe trovare un senso diverso – magari “più alto e più lento”, non di massa né standardizzato – proprio nel carattere tipico delle nostre aree interne. Anche la cultura potrebbe fare la sua parte.
E invece no. Tra le risposte istituzionali troviamo la sostituzione di un popolo che va scomparendo con altri venuti da lontano. Soluzione miope già in partenza, al problema dello spopolamento verrebbe solamente prolungata (di poco) la data di scadenza. L’occidentalizzazione nelle sue pieghe peggiori è scontata, l’integrazione – cosa ben diversa – decisamente meno. Il deserto politico che avanza non lascia prigionieri: con la Piccola Italia muoiono millenni di storia nazionale.
Marco Battistini