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Nietzsche, negli scritti inediti la felicità dell’esuberanza

by La Redazione
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nietzscheRoma, 2 nov – Se si volesse dar retta alle interpretazioni recenti dell’opera di Friedrich Nietzsche, molto di quanto detto dal grande filosofo andrebbe perduto in un calderone di semplificazioni e manipolazioni ad hoc. Dalla Scuola di Francoforte in su gli scritti di Nietzsche sono stati il bersaglio costante e irrinunciabile di un’ossessiva opera di ammorbidimento, depotenziamento e messa in sicurezza politicamente corretta.

Così La volontà do potenza è divenuta il lascito sconclusionato di una mente debole, le idee chiave dello Zarathustra sono state rese accessibili al “medio man” smussandone le inaccettabili implicazioni e così via. La storia della distorsione del pensiero nietzscheano è ancora tutta da scrivere, ma fortunatamente i numerosi testi di Baeumler, Locchi, Romualdi, Heidegger e Losurdo servono da validi controcanti.

Eppure la profondità del gigante tedesco mal si adegua a ogni facile rilettura ad uso delle delicate orecchie d’accademici e intellettuali impegnati. A dimostrazione della complessità e delle profonde radici della visione del mondo nietzscheana contribuisce il libretto Può un invidioso essere felice?, recentemente edito da Lit Edizioni (44 p., 6,00€). Il volumetto raccoglie quattro agili scritti risalenti al 1863-1864, quando Nietzsche aveva vent’anni e doveva ancora “divenire ciò che è”.

Eppure nella precocità di questi testi si raccolgono alcune tematiche che nel tempo saranno formulate con maggiore chiarezza e torneranno come temi portanti di molte sue opere. Il tema del ressentiment e quello dell’aristocrazia dello spirito, emergono in qualche modo dalle pagine di questa piccola raccolta.

La definizione data dal giovane Nietzsche dell’invidia, una forma di volontà di abbassamento, di rendere infelice chi è felice così che somigli in tutto all’invidioso, anticipa indubbiamente il concetto di ressentiment, quello stato d’animo costante che il filosofo riteneva di incontrare nella morale degli schiavi, in coloro cioè che odiano la grandezza e chi è migliore di loro. Perciò tutto deve abbassarsi, farsi uguale.

A una tale morale si oppone, com’è noto, quella dei signori. L’insegnamento della storia e il ricordo dei defunti, dice Nietzsche, deve divenire una forma  di ammirazione per il bello e il nobile che si esprimono nelle grandi personalità. Perché in fondo della storia patria e delle persone vicine ammiriamo ciò che eleva, e preferiamo scordare e non considerare ciò che invece ne svilisce l’animo.

L’insegnamento nietzscheano è quindi limpido e attuale: «Se pensiamo la patria come un tutto, essa agisce su di noi come una forza morale e ci ammonisce a mantenere la nostra anima fedele alle sue virtù, senza allontanarci da essa, né abbandonandoci a sogni cosmopoliti».

Francesco Boco

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