
Di conseguenza, la catastrofe può essere imprevedibile, non ‘legata’ ad alcuna necessità che in qualche modo la predetermini, e non deve necessariamente implicare una totale distruzione, ma può rimandare a una trasformazione, a un mutamento radicali; a un nuovo inizio, per intenderci. A me pare che il libro di Francesco Boco, Visioni della crisi. Spengler e Heidegger, uscito quest’anno per le Edizioni Avatar, si avvicini davvero moltissimo a questa idea non rassegnata, né depotenziata, di catastrofe. E per almeno due motivi. Innanzitutto, Boco riconosce con grande lucidità il ruolo fondamentale giocato dalla Zivilisation in Spengler. Lungi dall’essere uno sconsolato nostalgico dell’Occidente al tramonto, il pensatore tedesco ha colto alla perfezione l’importanza della civilizzazione, in cui si è ancora chiamati a decidere, e in questioni davvero vitali, come dimostra la ‘rivoluzione mondiale’ dei popoli di colore che premono contro il continente europeo, da lui vaticinata con impressionante preveggenza.
Allo stesso modo, Boco intravede con chiarezza il senso del rapporto in Heidegger tra destino e storicità dell’Essere come ‘spacco’, apertura, ‘evento’, e non fine già scritta in anticipo. Ha pertanto ragione il nostro direttore Adriano Scianca nella prefazione al testo di Boco, ad evocare un nome davvero imprescindibile, quello di Giorgio Locchi, e di richiamare, di quest’ultimo, la teoria aperta della storia. Insomma, in definitiva, Boco ci parla di una crisi senza resa, aperta a un possibile rovesciamento delle sorti, con profondità di analisi e senza ricorrere né a ideologismi quali che siano, né all’incapacitante linguaggio della nostalgia.
Giovanni Damiano