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Adinolfi: “L’Europa? Facciamola noi, come vere avanguardie”

by La Redazione
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Impero_AAngelaRoma, 25 apr – “La collisione storica determinata dai flussi migratori – si legge molto giustamente su Lotta Comunista dello scorso marzo – coi suoi nessi con i focolai di crisi del Grande Medio Oriente, ha aperto in Europa la battaglia per la centralizzazione dei poteri in ambiti cruciali per la sovranità degli Stati, come il controllo dei confini esterni e la gestione europea dell’immigrazione, e ha chiamato in causa la proiezione esterna dell’imperialismo europeo”. Difatti quelle dinamiche, nell’incendiare gli animi ovunque, hanno scatenato reazioni e posto nuovamente al centro la questione sul divenire dell’Europa. Con mia soddisfazione gli ambienti nazionalpopulisti, da tempo regrediti nella reazione antistorica fino a farli rinnegare le basi stesse da cui emersero nel dopoguerra, hanno riscoperto centri intellettuali notevoli che hanno ripreso a parlare seriamente d’Europa. Li ritroviamo sorprendentemente fianco a fianco con gli euroscettici. Questo confronto tra le avanguardie, accusate anche a ragione di essere sognatrici, e le retroguardie del pensiero che, per il momento, predominano nella confezione degli slogan delle destre catacombali, suggerisce infine qualcosa che dovrebbe sempre prevalere, ovvero la Sintesi.

La Sintesi, ovvero l’anima del fascismo

Sintesi non è sinonimo di compromesso, neppure l’effetto di un accordo democratico. Né esiste più di tanto una Sintesi teorica, frutto di programmi, che pure va perseguita. È comunque importante delinearla e mi sono impegnato in quest’esercizio nel mio Europa che tratta un po’ tutto: aree storiche e socioculturali, finanza, economia, corporazioni, istituzioni. Più importante ritengo però definire lo spirito, come ho fatto in Imperium. Ma tutto ciò non ci fa avanzare più di tanto se non pensiamo innanzitutto alla pratica, alla dinamica, all’oggi, all’incarnazione. La Sintesi non è, ripeto, compromesso o mediazione. Tra le due postazioni, quella d’avanguardia (definita alter/europeista) e quella di retroguardia (che prova la nostalgia dei nazionalismi provinciali che si ripropone di mantenere vivi sotto la campana di vetro di una sorta di confederazione priva di spinta storica e materiale) c’è un abisso. Diciamo che, fatto salvo qualche nostalgico attempato, la scelta tra le due postazioni segna un vero e proprio spartiacque antropologico, antropologico, non ideologico: lo stesso che ci fu tra bonapartisti e restauratori, tra fascisti e monarchici, tra nazionalrivoluzionari e stay behinders. Sono saldamente attestato sulla posizione europeista, lo sono al punto da non considerare positive implosioni della Ue, almeno nell’ottica delle prospettive, da essere convinto sostenitore del ruolo tedesco e da ritenere che l’Euro è meglio del No Euro. Va evitato, però, che questa vocazione avanguardista si perda nell’onirico e nell’astratto ed è la ragione per la quale bisogna perseguire costantemente la sintesi non tra le due postazioni quanto tra le anime, le spinte, dei popoli e della gente.

Concretizzare

Avere le idee chiare di certo aiuta, ma la vita c’insegna che non sono neppure queste a selezionare davvero. Avviene sovente che persone che non sono d’accordo su nessun programma ma ardono della stessa fiamma si ritrovino più in sintonia di quanto capiti invece tra gente diversa che ripete le stesse astratte opinioni. Mi diceva giusto lo scorso mese un politico nazionalpopolare svizzero: “tra quello che dicono i nostri e quello che affermano i socialisti sono sempre d’accordo con questi ultimi e mai con i miei, ma non posso stare con loro, anzi, devo proprio combatterli”. Ergo, non è primario trovare una linea di demarcazione concettuale, ce ne sono di più importanti: antropologiche, sentimentali e anche di urgenti. Come la risposta allo Ius Soli e alla nuova invasione straniera. Avere le idee chiare aiuta, poi, a collegare tutto questo in prospettiva, con una visione d’insieme che, per quanto salda, sia flessibile quanto rigida, in grado di modularsi man mano. Ciò è necessario se s’intende allargare il consenso ma soprattutto la partecipazione alle lotte. Dunque, se l’idea dev’essere programmatica, va pur sempre concretizzata e rivista in corsa. Particolarmente poi, se essa è l’Europa Impero, va espressa nella Pluralità di un’Unità che, in quanto Imperium, è per natura Monista e Politeista. (Come lo è stato anche il Cattolicesimo imperiale). Concretizzata, ribadisco, non significa solamente teorizzata. Anzi.

Il ruolo da assumere

Il ruolo che ci dovrebbe competere è quello della realizzazione del Contropotere, inteso come costituzione di poteri autonomi e di centri d’influenza che non nascono dall’alto della piramide politica ma che vi esercitano pressione. Questo ruolo, dirigenziale e strategico, si trova all’incrocio di tante spinte, anche caotiche e scomposte, spesso contraddittorie, che non bisogna liquidare a priori per un qualsiasi pregiudizio ideologico, “geopolitico” o altro. Non si deve quindi esagerare nell’esercizio accademico dei programmi astratti ma soprattutto non dobbiamo lasciarci intrappolare nella logica della negazione reciproca delle posizioni opposte riguardo il come vorremmo uscire dalla ragnatela. Certamente c’è un passo lungo e uno breve. Tutti i passi reazionari sono brevi ma non si può attendere che la gente impari a saper usare bene le gambe perché si muova: dobbiamo allenarla mentre ci alleniamo. E, nel farlo, si deve fare in modo che la visione a lungo termine non neghi con presunzione quella a breve. L’idea imperiale d’Europa è la sola garanzia possibile, oggi, delle autonomie individuali e comunitarie, delle identità regionali e nazionali, le quali ultime potranno così assumere un ruolo, nell’era dei satelliti. Ma non dobbiamo attendere che ci sia una revisione dei Trattati per procedere perché questo si vada a realizzare. Dobbiamo essere Imperium subito, ovunque, ma come? Essendo calamita e bussola.

Quell’Unità nella Pluralità e viceversa

Partendo dal presupposto che le entità storico-giuridiche non si equivalgono, che il Kosovo non vale la Grecia, anzi non ha ragione di esistere, che ogni soggetto è diverso da ogni altro e non ha la stessa autorevolezza, noi – che facciamo parte di un segmento di società che è nazionalistico e che è l’unico in grado di dialogare con ogni segmento identitario delle altre nazioni – dobbiamo favorire il rafforzamento e la sinergia interna delle varie espressioni sostanziali ed etniche: celtiche, slave, scandinave. Dobbiamo però ridisegnare l’Asse centrale dell’Imperium, quello romano-germanico, ci dobbiamo ri-radicare nell’anima e nella filosofia ellenica. Dobbiamo quindi favorire lo sviluppo dei tre grandi assi intereuropei: uno sul nord-est, uno sul Mediterraneo e uno nella Mittel Europa e, nel farlo, dobbiamo attualizzarne le tradizioni storiche e culturali. Ma non basta. Perché ci sia Unità nella Pluralità e Pluralità nell’Unità, dobbiamo andare oltre, e nessuno meglio di noi che siamo nazionalisti può essere chiamato a farlo. Perché l’Europa è un Uno articolato in diverse sfumature plurisecolari che, sotto la superficie, tuttora permangono.

L’Europa esiste

Dopo la caduta di Roma (e il suo lascito al Gran Maestro delle Rune, Odoacre, in cui si riconobbe la stirpe dei protogenitori), l’Europa ha creato comunità politiche e autonomie. Lo ha fatto dimostrando, ben prima che queste emergessero, che certe tesi giacobine sono prive di costrutto. La prima Nazione riconosciuta come tale è infatti la Svizzera quadrilingue e ben prima che gli Stati Uniti, la Russia plurinazionale, la Jugoslavia, il Brasile, ci facessero comprendere che non è necessario che ci sia un popolo per fare una nazione ché, vari popoli o perfino un insieme di feccia possono esser sufficienti, diversi imperi europei lo avevano ampiamente attestato. Con una differenza, ed è che gli imperi europei erano formati in larga misura da popoli della stessa protofiliazione. Spesso, poi, noi consideriamo i popoli sulla base di criteri di superficie. Ma tra veneti e liguri, tra pugliesi e molisani ci sono delle differenze spesso maggiori a quelle che intercorrono tra gli uni o gli altri nei riguardi dei castigliani o dei bretoni. Questo per dire che il Popolo europeo esiste, non solo in potenza; esiste quanto i vari popoli europei se non più ancora di essi. Quindi l’Europa in potenza c’è. Che non sia poltiglia dipende non dalle istituzioni ma dalle genti e, prima ancora, da chi le può indirizzare. Forse proprio da noi.

I tesori nascosti che dobbiamo valorizzare

Non ci sarà nessun’Europa e nessun popolo europeo se non saranno garantite Unità e Pluralità al tempo stesso. Le profonde analogie preistoriche permangono sempre, in profondità. Viaggiando, mi sono potuto render conto che il giorno di riposo infrasettimanale resta legato al dio principale di ogni popolo antico (per i celti è il mercoledì di Lug, per i britannici il lunedì, a Roma è il giovedì). Ma ben prima, quando ci fu il boom del rugby in Italia, mi andai a studiare le origini delle città che avevano un club in serie A: Milano e Roma a parte, erano tutte di origine celtica! La preistoria ci fornisce il piedistallo su cui riedificare ora che tutti gli edifici sono macerie ricoperte d’amianto, ma la statua da scolpire è dettata dalla storia delle singole civiltà europee e, oso aggiungere, dei diversi imperialismi e colonialismi. I quali, anch’essi, si articolano nel post-colonialismo e nel post-imperialismo e trasportano con sé ancor oggi ininterrotte influenze culturali, saldi legami geografici. E qui si trova la sintesi possibile tra europeisti e sovranisti, quando il sovranismo acquisisca una valenza attualizzata in un’ottica che lo trascende. D’altronde l’Imperium è un Principio più che un’istituzione, è una colonna vertebrale, uno spirito unificante, una forza centripeta ed innalzante che non può non integrare e nobilitare i sovranismi autentici. Esprimendo l’Imperium noi, senza attendere che sia istituzionalizzato, aiuteremo a che ci sia una grande elasticità tra le spinte unitarie e quelle particolaristiche, evitando che vadano in reciproca elisione e favorendone invece le salutari spinte. Ad esempio Spagna, Portogallo, Olanda, Belgio, Francia, con i loro singoli universi culturali e coloniali, hanno rappresentato e continuano a rappresentare veri e propri spezzoni che, non cooperando più di tanto tra loro, spesso, anzi, eredi di rivalità antiche, finiscono con l’essere neutralizzati se non strumentalizzati dal divide et impera americano. Il compito di noi, aspiranti nazional-rivoluzionari – che facciamo parte di un segmento di società che è nazionalistico e che è l’unico in grado di dialogare con ogni segmento identitario delle altre nazioni – è proprio quello di diventare il crocevia tra i vari nazionalisti al fine di aiutare ad avviare reciproche composizioni, per esaltare la pluralità di strumenti in un’orchestra che intoni sempre e soltanto sinfonia.

Rivalutare un certo colonialismo

In parole crude e povere dovremmo inserire nello spartito la rinascita e la riaffermazione dei singoli universi ex-coloniali e, nell’articolarli, renderli sinergici e ricondurli alla nostra comune potenza, dalla quale non solo potremo cambiare il flusso migratorio ma anche andare a spezzare la tenaglia cinese e americana. Come? È molto più un fatto di frequentazioni reciproche e di partecipazione insieme a lotte – di cui non si deve forzatamente condividere l’intera impostazione – che non di realizzazione di manifesti programmatici o di architetture politiche. Non dimentichiamo l’essenziale. Le avanguardie nascono dalla lotta, dal combattimento per la virilità, per la libertà, per l’identità. Non siamo né intendiamo divenire un’alternativa riformista di governo, bensì uno stato maggiore “evoleninista” delle spinte vitali. La pressione nei confronti delle istituzioni, nazionali ed europee, quindi, non si può esaurire negli stupidi slogan di negazione, sterili e incapacitanti, ma questo non significa che debba attendere tempi diversi, essa non deve conoscere sosta, ma metodo. Va quindi fatta passando all’avanguardia. Una sfida di sistema, fondata sulla battaglia per i produttori, sulla realizzazione delle autonomie, sull’alternativa corporativa e sulla riconquista del ruolo imperiale e coloniale, ovviamente concordato e condiviso con le controparti d’Eurafrica e d’Eurasia che, al contempo, recupererebbero così fierezza nazionale, identità e sviluppo. E il nostro ruolo in tutto ciò è quello di essere avanguardia politica e think tank e di diventare crocevia in tutta Europa, per la graduale formazione di uno stato maggiore che ci conduca tutti verso la ripresa in mano del nostro destino o incontro a un’altra grande tragedia. Fare insomma, noi, l’Europa Impero a prescindere dalle istituzioni e con ciò sfidarle seriamente. In fin dei conti quello che propongo non è poi così impegnativo, è solo una rivoluzione.

Gabriele Adinolfi

 

 

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Martino 25 Aprile 2016 - 2:40

Adinolfi, sono un suo sincero ammiratore, ma questa sua infatuazione per l’euro, l’EU e compagnia cantante la fa sembrare a un uomo innamorato di una donna che scopa con tutti tranne che con lui. S’interroghi sul perché questo sistema l’hanno messo in piedi i nostri nemici e non noi, una ragione ci sarà pure…

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Cesare 25 Aprile 2016 - 3:17

Non ho visto riferimenti a rendere la BCE una banca pubblica, senza la quale continueremmo a rimanere in mano ad una BCE privata dei plutocrati come è adesso e che in cambio di carta si prende le ricchezze intere dei paesi schiavi. Forse la cosa viene data per scontata ma non lo è.Per il resto è un fatto che una europa forte fu cio’ contro cui lottarono i banchieri mondialisti massoni e il loro burattino Churchill.Combattendo Italia e Germania e obbligandoli ad entrare in guerra con una propaganda antitedesca e anti italiana, iniziata molto prima del 1939, essi fecero si’ che vincessero gli slavi con Stalin e gli anglossassoni con Inghilterra e USA e decretarono la schiavitu’ degli europei

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Matteo Rovatti 25 Aprile 2016 - 9:05

A parte che la balla clamorosa delle “nazioni multieniche” l’ho smontata nel mio articolo, invito il cortese articolista (quello per cui l’Euro sarebbe un concorrente del dollaro) a trarre le dovute conseguenze dalla sua tesi per cui le differenze di razza, lingua e costume non contano ai fini della coesione comunitaria (“capitale sociale”, direbbero i sociologi) e sostenere apertamente l’importazione di manodopera allogena.
Tanto, ci pensa il “multicomunitarismo” che tanto piace ai neodestri a risolvere tutto giusto?
Magari con un bel principio di sussidiarietà come fosse Antani vicesindaco.
Apprezzo però l’onestà: con l’UE e con l’Euro, sempre e comunque, a prescindere dalla gente che crepa, tanto sono tutti maledetti bottegai, piccoli borghesi del cazzo che difendono solo i propri interessi.

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