Roma, 24 ago – È stato il «ribelle più bello del mondo». E l’attore più importante (insieme a Jean Gabin) dell’intera storia del cinema francese. Pertanto, ad Alain Delon, nato l’8 novembre 1935 e deceduto ieri, nell’Olimpio degli artisti spetta di diritto il gradino più in alto. L’insofferenza di Delon verso ogni gerarchia, come più volte ha ricordato, prende avvio dalla separazione familiare. I suoi genitori si lasciano, pochi anni dopo la sua nascita. E lui non trova più un punto fermo.
Alain Delon, spirito anticonformista
Rifiuta la famiglia adottiva; rifiuta l’istituto religioso; rifiuta l’esercito. Nel 1953 si arruola a viene spedito in Indocina. Vi trascorre cinque anni, di cui uno passato in guardina. Tornato alla vita civile incontra causalmente il cinema. E scopre che l’universo della celluloide lo stava aspettando. La prima apparizione sul grande schermo la deve a Marc Allégret, che gli assegna un ruolo secondario in Godot (1957). Pochissima gavetta. Al terzo film, un melodramma in costume, L’amante pura (1958) di Pierre Gaspard-Huit, è già protagonista in divisa da ufficiale accanto a Romy Schneider.
Due anni dopo arriva la consacrazione nazionale e mondiale. In Francia è protagonista di Delitto in pieno sole (1960) di René Clément, nel ruolo di Tom Ripley (il film è un adattamento del celebre racconto di Patricia Highsmith Il talento di mister Ripley). In Italia viene scritturato da Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1960). Successivamente Visconti lo incastona come gemma preziosa in una corona reale, in Il Gattopardo (1963). Michelangelo Antonioni un anno prima lo ha voluto accanto a Monica Vitti in L’eclisse (1962). In soli tre anni Alain Delon recita nell’«opera crepuscolo» del neorealismo (Rocco e si suoi fratelli); nel più alto esempio di trasposizione cinematografica (Il Gattopardo, dalle pagine di Tomasi di Lampedusa alle immagini di Visconti); nel tassello conclusivo della «trilogia» antoniniana scaturita dall’«incomunicabilità esistenziale» (L’eclisse). Delon è perfetto nei poveri panni del meridionale intento a prendere a pugni la vita pur di farcela, nella Milano del «miracolo economico».
È perfetto nell’abito da sera, con tanto di benda nera all’occhio per la ferita riportata, nella sontuosa dimora aristocratica della Sicilia risorgimentale. Ed è perfetto nell’abito nero attillato, oscillando tra gli interni in stile metafisico di De Chirico e gli esterni razionalisti dell’EUR. A quel punto la carriera di Delon è in piena ascesa. Il grande «cinema d’autore» italiano è il biglietto da visita più prestigioso per raggiungere comodamente Hollywood. Ma l’attore sa benissimo che il suo spirito «ribelle», in quel sistema produttivo ferreo e schematico, finirebbe per trasformarsi in una palla al piede. Lo ha verificato in un dozzinale film d’evasione, Texas oltre il fiume (1966) di Michael Gordon. E gli è bastato. Decide così di restare in Francia. In patria deve scegliere se affiancare il cinema commerciale, oppure virare sul «film d’autore». La nouvelle vague di François Truffaut e Jean-Luc Godard dopo l’esplosione sta esaurendo la spinta propulsiva. Gode di grande considerazione mediatica. Ma al botteghino i risultati sono piuttosto magri. Delon sarebbe stato perfetto in alcuni capolavori d’autore: Fino all’ultimo respiro (1960) di Godard, Jules e Jim (1962) di Truffaut, Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle. Ma ha perso il treno, impegnato in ben altro. Inoltre, l’astuta evoluzione dei «padrini» della nouvelle vague gli piace davvero poco. Dopo qualche giro a vuoto trova il giusto approdo: il regista Jean-Pierre Melville. Melville è impegnato a europeizzare il generi gangster e noir hollywoodiani. Al primo colpo Melville e Delon fanno centro: Frank Costello faccia d’angelo (1967). Il titolo originale è meno scoppiettante: Le samouraï.
Da Melville a Fellini
È un’«opera-cerniera», che disegna alla perfezione i contorni di un genere prettamente francese, il polar, ancora oggi imitato e prolungato all’infinito (in Italia, con stile diverso, prenderà il nome di «poliziottesco»). Delon è un criminale senza scrupoli, freddo, compassato, elegante. Potresti scambiarlo per un direttore di banca, che adora la musica classica, frequenta i musei, consuma i pasti nei ristoranti più esclusivi e può discettare, con proprietà di linguaggio, sull’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre. Con Melville, maestro indiscusso del polar, Delon interpreterà altri due film: I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972). La collaborazione con un altro eccellente regista francese, Jacques Deray, aggiunge alla carriera di Delon, già piena di luci, altre parti brillanti, assai diverse tra di loro. La piscina (1969), un dramma introspettivo; Borsalino (1970), spassosa ricostruzione nazional-popolare – accanto a Delon c’è l’eterno rivale Jean-Paul Belmondo – della malavita marsigliese anni Trenta (nel 1974 verrà realizzato un prolungamento, Borsalino&Co, senza Belmondo); Flic Story (1975), estenuante caccia di un poliziotto ad uno spietato criminale, all’apparenza inoffensivo (un superbo Jean-Louis Trintignant); La gang del parigino (1977), pezzo meno pregiato del sodalizio tra il regista e l’attore. È vero che nella ancora lunga carriera Delon non ha più trovato un Visconti con cui recitare. Ma ha spaziato in largo e lungo, aggiungendo in ogni apparizione sempre qualcosa di pregevole. Come nel western Sole rosso (1971) Terence Young, accanto a Charles Bronson e Ursula Andress. Delon è perfetto nei convenzionali Tony Arzenta (1973) di Duccio Tessari (con il quale nel 1975 ha intrepretato anche Zorro), e Lo zingaro (1976) di José Giovanni, ma anche nell’austero Mr. Klein (1977) di Joseph Losey. La grandezza di Alain Delon come attore si può dimostrare attraverso una comparazione. Il 23 ottobre 1972 appare, sugli schermi italiani, La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. Delon è il protagonista. Il 15 dicembre dello stesso anno esce Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Marlon Brando è il protagonista. Il primo film è finito nel dimenticatoio. Il secondo è universalmente noto, addirittura forse il film italiano che ha convogliato più persone nelle sale cinematografiche. Il forse è dato dal fatto che per altri titoli, come La dolce vita (1960) di Federico Fellini, mancano oggettivi riscontri. La prima notte di quiete gode di limitata fortuna critica; Ultimo tango a Parigi è un’«opera di culto», osannata a livello planetario. Il trascorrere del tempo, però, consente di giudicare con più equilibrio la vera qualità delle opere e, soprattutto, delle recitazioni dei protagonisti. Se guardiamo senza alcun tipo di pregiudizio La prima notte di quiete e Ultimo tango a Parigi, possiamo tranquillamente affermare che il «vero tango» non fu girato a Parigi, ma a Rimini. Infatti, Zurlini ambientò il film nella costa romagnola, nel grigiore del freddo invernale, tra Rimini, Riccione, Misano Adriatica e Cattolica.
È sorprendente come i due film mostrino notevoli somiglianze. Entrambi raccontano la storia d’amore tra un uomo maturo e una giovanissima. All’epoca Marlon Brando aveva 48 anni, Maria Schneider 20. Delon ne aveva 37 e 20 anche Sonia Petrova. Entrambe le ambientazioni hanno una prevalenza della notte sul giorno. Brando e Delon, dalla prima all’ultima immagine, indossano un cappotto color cammello, spesso sopra un maglione alla dolcevita dal collo sbrindellato: l’unica differenza è il doppiopetto per Delon e il petto singolo per Brando. Il finale è identico: i due uomini muoiono. Delon a causa di un incidente; Brando assassinato dalla giovane compagna. Come è stato possibile che di La prima notte di quiete si è persa la memoria, mentre Ultimo tango a Parigi venga ancora oggi celebrato? Certo la componente erotico-scandalistica, oltre alle vicissitudini giudiziarie, ebbero un peso notevole nel decretare il successo del film di Bertolucci. Però, tralasciando questo pur rilevante particolare, è abbastanza evidente che il vero «capolavoro» lo ha realizzato Zurlini e non Bertolucci. E che Alain Delon, chiamato a recitare lo stesso ruolo di un «mostro sacro» come Marlon Brando, non solo non sfigura, ma gli è sopra di una spanna. Se ai due film è toccata sorte diversa, ciò è dovuto all’«aria del tempo». Bertolucci cavalcava l’onda lunga del Sessantotto. La cavalcava non tanto politicamente (pur se era un regista sessantottino in piena regola), ma sessualmente, mescolando la totale liberazione con l’autodistruzione nichilista. Freud e Marx filtrati dal «guru» dell’epoca Jacques Derrida, teorico della «dissipazione dell’uomo». Ai contemporanei La prima notte di quiete apparve vecchio; Ultimo tango a Parigi nuovissimo.
Oggi è il contrario: Bertolucci è la «traccia» di un sentire andato, che vive e spira nella sua epoca; Zurlini, invece, rompe le catene del tempo di realizzazione, proiettandosi nel futuro. I dialoghi di Bertolucci sono datati e a tratti insopportabili. In Zurlini tutto è misurato, poiché non è né moderno né postmoderno, ma classico. Brando è l’autodistruzione dell’uomo occidentale; Delon l’esaltazione della ribellione che non crede all’impegno o al disimpegno, ma alla vita eroica (è figlio di un aristocratico militare deceduto eroicamente ad El Alamein). Il primo muore per la sua scempiaggine; il secondo per un incidente automobilistico. L’esistenza del primo è recisa da una ragazza priva di senso e in malafede; quella del secondo la rapisce il destino. La prima notte di quiete è un’opera corale, alla quale portano il loro contributo Giancarlo Giannini, Renato Salvatori, Lea Massari, Alida Valli, Adalberto Maria Merli, Salvo Randone. Ultimo tango a Parigi si regge tutto sulla coppia Brando-Schneider, oltre agli inutili omaggi del regista-cinefilo alla nouvelle vague (Jean-Pierre Léaud) e al neorealismo (Massimo Girotti e Maria Michi). Il film di Zurlini odorava troppo di tradizionalismo per essere apprezzato come meritava. E lo stesso Delon era considerato un attore commerciale, con l’aggravante della sua conclamata ostilità alle ubriacature rivoluzionarie parigine. Zurlini è un grande dimenticato della cinematografia italiana. La prima notte di quiete lo portò a raggiungere la piena maturità, espressasi alla massima potenza nel secessivo Il deserto dei tartari (1976). Il pessimo rapporto tra Delon e Zurlini li portò a separarsi. Delon avrebbe potuto essere il magistrale protagonista de Il deserto dei tartari. Un peccato! Nonostante questa occasione mancata, recitando in La prima notte di quiete Delon raggiunse, senza immaginarlo, la vetta artistica della carriera. Finite le riprese maledisse di avervi preso parte. In Francia fece uscire il film in una diversa edizione. Ripicche e risentimenti. Poi venne il tempo della ragione. E capì che aveva avuto fortuna.
Tra il 1980 e il 2008 Alain Delon è presente in diversi ruoli in oltre venti pellicole. C’è di tutto: da Un amore di Swann (1984) di Volker Schlöndorff a Il ritorno di Casanova (1992) di Édouard Niermans; da Per la pelle di un poliziotto (1981) diretto da se stesso a Uno dei due (1998) di Patrice Leconte. L’ultima sua apparizione – cameo di una magnifica carriera – è in Asterix alle Olimpiadi (2008). C’è stato anche un tentativo di riconciliazione con la nouvelle vague. Godard l’ha voluto protagonista di Nouvelle vague (1990). Il vecchio maoista dietro la macchina da presa a dirigere l’amico e sostenitore di Jean-Marie Le Pen, impegnati entrambi a difendere la più nobile e accreditata cultura cinematografica nazionale. Iniziativa generosa. Sfortunata. Purtroppo, fuori tempo massimo. In gioventù Delon non avrebbe certo sfigurato nella parte di Belmondo in Fino all’ultimo respiro. Ma così non è stato. E tutto sommato è irrilevante.
Claudio Siniscalchi