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Bancarotta/5 Altro che Mps, il grande malato si chiama Unicredit

by Filippo Burla
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Quinta puntata della nostra inchiesta sulla crisi del sistema bancario italiano.
Le puntate precedenti:

crisi UnicreditRoma, 1 feb – Monte dei Paschi? Quasi un’inezia – non ci fosse di mezzo la storia della banca più antica del mondo distrutta dal vampirismo del centrosinistra – di fronte al caos che può saltar fuori attorno ad Unicredit. Sì, proprio la il più grande istituto italiana e fra i primi in Europa: è lui il grande malato del sistema bancario tricolore.

In meno di una settimana di contrattazioni a Piazza Affari, Unicredit ha lasciato sul terreno oltre il 10% della capitalizzazione e, da meno di un anno a questa parte, quasi il 50% del proprio valore, passando dai 40€ ad azione di maggio 2016 agli attuali 26, con punte al di sotto dei 20. A pesare, specialmente nella giornata di ieri (un -3,97%, dopo il -5,5% di due giorni fa, capace da solo di trainare al ribasso tutta Borsa Italiana), sono state le prime stime sul bilancio 2016: la banca si prepara a chiudere un annus horribilis con qualcosa come 12 miliardi di euro di perdite. E’ l’effetto della pulizia sui conti, con massicce svalutazioni poste in essere nell’ultimo trimestre per allineare al mercato i 70 e passa miliardi di crediti deteriorati (dati al 30 settembre 2016), in attesa del piano sulle sofferenze che la Banca centrale europea ha chiesto di redigere entro fine febbraio.

Nel frattempo, Unicredit si prepara all’aumento di capitale da almeno 13 miliardi (solo uno in più rispetto al maxi-rosso dell’anno) predisposto dall’amministratore delegato Jean-Pierre Mustier, che porterà le azioni della banca a livelli ancora più depressi rispetto ad oggi. Un bagno di sangue per gli azionisti, specialmente coloro che non avranno la possibilità di esercitare il diritto di opzione. Oltre a ciò, spicca la molte dell’aumento: 13 miliardi – che potrebbero anche salire a 15 – sono una cifra mostruosa rispetto a precedenti esperienze analoghe. Senza di esso, spiega Unicredit in un documento preparatorio depositato in Consob, la banca potrebbe “subire degli interventi, anche invasivi, da parte delle Autorità di Vigilanza”. Si scrive così, si legge bail-in: minaccia per forzare i soci a nuovi versamenti o previsione di un futuro non tanto lontano? Domanda tutt’altro che retorica, stante il fatto che meno di cinque anni fa la società di piazza Gae Aulenti varò una simile operazione. All’epoca i miliardi rastrellati sul mercato furono 7,5, evidentemente già bruciati nell’arco di un lustro. Mustier assicura che l’aumento è corposo proprio per evitare di doversi rivolgere al mercato nei prossimi anni. Quanti, di preciso?

Non c’è però solo l’aumento di capitale. Quest’ultimo è uno dei tanti passaggi per tentare di rimettere in sesto il fu Credito Italiano. Il quale, intanto, continua con la cessione dei gioielli di famiglia: dopo i 2,4 miliardi incassati per banca Pekao e i 3,54 per la cessione di Pioneer investimenti ai francesi di Amundi (altro giro, altra corsa) ora sembra arrivato il momento anche per la vendita dei crediti in sofferenza. Si parla degli americani di Fortress e Pimco come potenziali interessati per rilevare qualcosa come 17,7 miliardi di incagli e sgravare così i bilanci, ma non è ancora chiaro quale sarà il prezzo di cessione. Sarà l’ennesima svendita – dopo quella dei risparmi degli azionisti – per una banca che doveva giganteggiare per l’Europa intera e che si avvia invece ad un forte ridimensionamento?

Filippo Burla

 

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