Roma, 18 mag – Il 24 maggio, oltre al Piave che mormorò “Non passa lo straniero”, è una data importante anche nella storia del calcio italiano. Infatti trentacinque anni or sono il Milan conquistava a Barcellona la sua terza Coppa dei Campioni, iniziando di fatto un ciclo che, per quasi vent’anni, lo avrebbe visto primeggiare in tutto il mondo. Quella sera di un umido maggio catalano la squadra allenata da Arrigo Sacchi annichilì la Steaua di Bucarest 4-0, con doppietta dei “tulipani” Gullit e Van Basten. Il club di Silvio Berlusconi coronò così un percorso che lo aveva visto umiliare in semifinale il Real Madrid con un sontuoso 5-0. Percorso che però ebbe anche situazioni al limite dell’epica come la nebbia di Belgrado, che impedì ai rossoneri una quasi certa eliminazione. Ma queste sono cose che o avete vissuto o potete trovare facilmente sul web. Oggi invece vi voglio parlare della mia esperienza personale, quella di un ragazzo di terza media di quasi quattordici anni che viveva la sua prima trasferta europea.
L’esodo verso Barcellona
Il Milan solo pochi anni prima era stato per ben due volte nell’inferno della Serie B (del resto è nel DNA del club del Diavolo non avere mai avuto mezze misure nella sua storia), poi era arrivato Berlusconi e nel 1988 la conquista dello Scudetto, che garantiva l’accesso alla Coppa dei Campioni (altro che arrivare quinti ed andarci lo stesso…). Vitocha Sofia, Stella Rossa Belgrado, Werder Brema e Real Madrid cedettero, nell’ordine, il passo all’undici capitanato da Franco Baresi, in un tripudio di colori ed entusiasmo milanista, a San Siro ed in trasferta. Ci si prepara così alla finale prevista a Barcellona mercoledì 24 maggio 1989, contro i rumeni della Steaua di Bucarest. La Steaua, la squadra dell’esercito e, di fatto, espressione del regime dello spietato dittatore Nicolae Ceausescu, era una delle compagini più forti d’Europa, avendo già conquistato la Coppa dei Campioni nel 1986. Nicolae però non aveva particolare interesse per il calcio, al contrario del figlio Valentin che invece era uno dei dirigenti della squadra. All’epoca la ripartizione dei biglietti per le finali era molto più semplice ed equa di oggi: agli sponsor andava poco o niente e di fatto lo stadio veniva diviso a meta tra le due tifoserie. Peccato che i rumeni all’epoca non avessero praticamente nessun diritto di lasciare il proprio paese (benché ormai sull’orlo del tracollo), tanto meno verso una nazione non facente parte del Patto di Varsavia, mentre dalla parte milanista, che non vinceva la Coppa dal 1969, praticamente qualsiasi uomo, donna e bambino abile (e anche parecchi di non abili) volevano essere presenti a tutti i costi. Risultato? Rumeni presenti in tribuna autorità in un centinaio di unità (il “buon”Valentin, uomini di apparato e parenti dei giocatori) e milanisti in circa centomila! Sì, perché non è mai stato chiaro quante persone ci fossero esattamente al Camp Nou quel giorno. Ufficialmente si parla di novantotto mila spettatori, ma in realtà entrò praticamente chiunque si trovasse in loco al momento, tra tifosi del Milan e tifosi del Barcellona semplicemente entusiasti di non aver dovuto vedere gli odiati rivali del Real Madrid alzare la coppa nel loro stadio.
Un evento storico
Io, con mio padre e mia madre, arrivai a bordo di uno dei centinaia di pullman che dall’Italia raggiunsero il capoluogo catalano, lungo strade che erano letteralmente invase dai colori rossoneri, strade cariche di un entusiasmo difficilmente ripetibile. Auto private, camion, moto e ci fu gente che arrivò persino in bicicletta! E poi treni speciali ed ordinari, aerei e persino una nave con a bordo Umberto Smaila: nessuno voleva mancare a quell’evento storico. In quel clima di festa assoluta provò a mettere un po’ di brio la solita Guardia Civil, caricando a cavallo gente pacifica che aveva l’unica colpa di trovarsi in coda agli ingressi… ma va be’, negli anni successivi avrei imparato ad abituarmi al trattamento “amichevole” della polizia iberica. Chi rimase a casa si trovò ad assistere alla partita su Rai 1 in un clima surreale: infatti era in corso uno sciopero della televisione spagnola che non garantì le riprese del match a partire dal quindicesimo minuto, riprese poi fatte da mezzi di fortuna italiani e con uno straordinario Bruno Pizzul al commento. Tutte cose che sembrano incredibili pensando a cosa sia la Champions League di adesso, ma che in fondo non facevano altro che accrescere l’aura di mito che rivestiva ogni partita, vista sì come evento unico ed irripetibile. Come ebbe a dire Sacchi a posteriori, quando passò con il pullman della squadra in mezzo a due ali impressionanti di folla: “Ma se perdiamo, cosa diciamo a tutta questa gente?”. Ma per fortuna di noi milanisti non ci fu bisogno di cercare risposta a questa tetra domanda. Semplicemente era tutto troppo perfetto perché accadesse qualcosa di diverso da un trionfo rossonero (anche se all’epoca a giudicare dai lineamenti tesi fino allo sfinimento di mio padre non ci avrei certamente messo la mano sul fuoco): 4-0 senza storia e io felice insieme alla mia famiglia ed a migliaia di cuori rossoneri, mentre Fossa,Brigate e Commandos guidavano i festeggiamenti di un intero popolo. In futuro avrei vissuto altre finali, altre trasferte, altre emozioni esaltanti e deprimenti… ma quella sera di trentacinque anni fa resterà per sempre tatuata nel mio cuore e in quello di chiunque si trovasse allora sulle gradinate.
Roberto Johnny Bresso