Il presidente della Camera, in visita ufficiale in Albania, ha affrontato il tema nel corso di un incontro con il presidente Ilir Meta. “Ho espresso preoccupazione per imprese che delocalizzano“, ha twittato la Boldrini, aggiungendo di ritenere l’internazionalizzazione una sfida importante, “ma mantenendo lavoro in Italia“. Il ragionamento è stato poi ampliato durante un’allocuzione tenuta presso il parlamento di Tirana. “Per il sistema produttivo italiano – ha spiegato – l’Albania può costituire una grande opportunità di ulteriore sviluppo, a patto però di non ridurre la nostra presenza qui solo alla delocalizzazione di alcuni segmenti produttivi, confidando magari sul livello inferiore dei salari”.
Di preciso, secondo la terza carica dello Stato, perché le imprese internazionalizzano? Forse per intercettare le catene globali del valore, come va di moda dire adesso? Un’espressione ad effetto, ma che nasconde quella verità che la Boldrini non vuole le vedere: chi delocalizza lo fa per andare alla ricerca di salari più bassi. E i motivi non sono da ricercarsi solo nell’avidità, ma proprio in quell’internazionalizzazione che per la Laura nazionale rappresenta una virtù. D’altronde, se con l’apertura delle frontiere la concorrenza è con chi fa della manodopera a basso costo la propria forza, i modi per affrontare la faccenda si riducono a due, che stiamo sperimentando entrambi da anni sulla nostra pelle: spostare la produzione dove costa meno, oppure ridurre il costo del lavoro in casa. Ma questo la Boldrini lo sa benissimo, dato che buona parte della forza-lavoro degli ultimi anni è costituita da quei nuovi schiavi che lei, fra i primissimi, ha contribuito a voler importare quasi a forza.
Filippo Burla
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