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Con questa sentenza la Cassazione dichiara lecito il saluto romano (testo integrale)

by La Redazione
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Roma, 4 lug – Pubblichiamo il testo integrale della sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 7 giugno 2017, dove il rito del Presente e il saluto romano vengono dichiarati leciti, non violando alcun diritto. Come riportato nell’articolo dell’avvocato Gino M.D. Arnone, questa sentenza dovrebbe essere sufficiente a mettere una pietra tombale sul disegno di legge promosso dall’on. Emanuele Fiano del Partito Democratico, che prevede una condanna fino a due anni di reclusione per chi fa il saluto romano.

La Corte Suprema di Cassazione ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano; nei confronti di: V.S., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 10/06/2015 del Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Angela Tardio; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Cardia Delia, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; udito il difensore del ricorrente, avv. Maria Espedita Rechichi in sostituzione dell’avv. Michela Andresano, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 10 giugno 2015 il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Milano ha dichiarato non doversi procedere, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., nel procedimento n. 6507/15 R.G. nei confronti di V.S. in ordine al reato di cui all’art. 110 c.p. e art. 112 c.p., n. 1 e L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 5, per insussistenza del fatto.

Secondo l’ipotesi accusatoria, l’imputato, in concorso con altri soggetti separatamente giudicati ( G.F., C.L.A., A.A.A., Ar.St., Ca.Ro., T.M.E. e Ta.Gi.St.), e con numerose altre persone rimaste sconosciute, avevano compiuto manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quali la “chiamata del presente”, il c.d. “saluto romano”, l’esposizione di uno striscione inneggiante ai camerati caduti e di numerose bandiere con croci celtiche, analiticamente descritte nel relativo capo di imputazione, mentre il (OMISSIS) partecipavano in (OMISSIS) alla manifestazione commemorativa in ricordo di P.E. (consigliere provinciale del (OMISSIS)), ucciso in viale (OMISSIS), R.S. (militante del (OMISSIS)), vittima di aggressione in (OMISSIS), e B.C. (militante della Repubblica sociale italiana), ucciso dai partigiani il (OMISSIS).

All’imputato era, in particolare, contestato di avere partecipato al corteo esibendo bandiere raffiguranti la “croce celtica” (simbolo notoriamente adottato dalle formazioni di ispirazione nazi-fascista), che sventolava anche durante il tragitto da piazzale (OMISSIS).

1.1. Il Giudice premetteva che:

– a seguito della richiesta di rinvio a giudizio depositata dal Pubblico ministero il 16 dicembre 2014 nei confronti di dieci persone per l’indicato reato, V.S. aveva chiesto all’udienza preliminare del 26 maggio 2015 la sospensione del procedimento per messa alla prova;

– l’ammissione alla messa alla prova poteva, tuttavia, essere disposta, ai sensi dell’art. 464-quater c.p.p., solo se non dovesse essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., la cui pronuncia, invece, si imponeva per insussistenza del fatto.

1.2. Tanto premesso, il Giudice richiamava in fatto la ricostruzione della vicenda, operata dalla DIGOS di Milano anche attraverso la estrapolazione di immagini dal filmato, apparso sul sito internet (OMISSIS), di alcuni momenti salienti della manifestazione commemorativa, svoltasi a (OMISSIS), promossa, come di consueto, dai movimenti della Destra extraparlamentare milanese e da appartenenti all’ex partito A.N., inseriti in Fratelli d’Italia.

Il corteo, cui avevano partecipato oltre un migliaio di militanti, provenienti anche da altre città, era partito dal (OMISSIS), dopo la deposizione di una corona in memoria di B.C. e l’effettuazione da parte dei partecipanti del c.d. “saluto romano”, alzando il braccio destro, dopo che uno dei coimputati G.F. aveva chiamato tre volte il “presente”.

Il corteo era preceduto da uno striscione lungo sette metri circa, recante la scritta in bianco su sfondo nero “onore ai camerati caduti”, preceduta e seguita da due croci celtiche.

Dietro allo striscione in testa al corteo vi erano sei giovani militanti di (OMISSIS), tra i quali l’imputato V., individuato attraverso i fotogrammi estratti dai video, che sventolavano bandiere raffiguranti la croce celtica.

Il corteo, seguendo il tragitto concordato, si era fermato in (OMISSIS) per ripetere il “presente”, chiamato dal coimputato C., ed effettuare il “saluto romano”.

Al termine della cerimonia verso le ore 22.30 gran parte dei militanti, incontratisi all’angolo di (OMISSIS), avevano formato un altro corteo e, preceduti dal predetto striscione, avevano raggiunto il civico (OMISSIS) dello stesso viale, fermandosi davanti alla lapide in memoria di P.E. e ripetendo il “saluto romano”, dopo la nuova chiamata del “presente” da parte del coimputato A.A..

1.3. Il Giudice nel prosieguo della sentenza:

– procedeva all’esame della fattispecie contestata alla luce della sua evoluzione giurisprudenziale e dei plurimi interventi della Corte costituzionale;

– evidenziava, in via preliminare, con riguardo al testo della norma incriminatrice, che non vi era alcun dubbio sulla sussistenza nella specie dei due requisiti da essa richiesti, rappresentati dal carattere pubblico della riunione e dal carattere usuale del disciolto partito fascista delle manifestazioni, tali intendendosi quanto generalmente praticato dal detto partito facendo ampio utilizzo della simbologia classica dell’antica Roma, come l’uso del “saluto romano” nella forma del braccio destro teso e palmo della mano aperto, divenuto durante il regime fascista elemento rituale e obbligatorio, e l’uso della croce celtica, che era uno dei più diffusi simboli neofascisti;

– specificava, poi, che, alla luce degli interventi della Corte costituzionale (sentenze n. 74 del 6 dicembre 1958 e n. 15 del 27 febbraio 1973), la norma vietava e puniva non qualsiasi manifestazione del pensiero, ma quelle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista “che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute”, e, tra queste, non solo “gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione”, ma anche manifestazioni, espressioni, gestì, comportamenti, quali “possibili e concreti antecedenti causali di ciò che resta costituzionalmente inibito”, e quindi “idonei a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste”;

– rimarcava che nella giurisprudenza si era sviluppata e consolidata, alla luce dei richiamati principi, la qualificazione del reato come di pericolo concreto e che le manifestazioni del pensiero fascista e dell’ideologia fascista in sè non erano vietate, attese le libertà di espressione e di libera manifestazione del pensiero costituzionalmente garantite, ma lo erano solo se assumevano caratteri e connotati tali da porre in pericolo la tenuta dell’ordine democratico e dei valori allo stesso sottesi;

– citava alcuni casi in cui la giurisprudenza di legittimità aveva ravvisato gli estremi del reato in oggetto, come il caso di chi intonava l’inno “all’armi, siam fascisti”, considerato come professione di fede e incitamento alla violenza; di chi compieva il “saluto romano” armato di manganello durante un comizio elettorale; dì coloro che dopo la lettura della sentenza facevano il “saluto romano” e gridavano più volte la parola “sieg heil”.

1.4. Passando all’esame della fattispecie concreta, emergente dal materiale probatorio, il Giudice:

– escludeva che le modalità di svolgimento della manifestazione avessero creato il pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista e che quindi fosse ravvisabile il reato di cui alla L. n. 645 del 1952, art. 5;

– evidenziava la natura della manifestazione e del corteo, organizzati al solo fine commemorativo di tre defunti, tutti storicamente vittime di una violenta lotta politica che aveva attraversato diverse fasi storiche, sottolineando che le manifestazioni di carattere fascista e con indubbia simbologia fascista erano finalizzate a detta commemorazione, in segno di omaggio e di umana pietà, senza alcuna finalità di restaurazione fascista;

– rappresentava, inoltre, le modalità ordinate e rispettose del corteo, svoltosi in assoluto silenzio, portando i manifestanti le fiammelle in mano accompagnati dal solo suono dei tamburi senza inni, canti, frasi o slogan evocativi dell’ideologia fascista, senza comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti nei confronti dei presenti, armi o altri strumenti;

– sottolineava, inoltre, che lo stesso contenuto dello striscione era limitato a rendere “onore ai camerati caduti”, senza aggiungere riferimenti a lotte o rivendicazioni politiche, e che anche il comunicato del comitato organizzatore unitario del 15 aprile 2014 aveva fatto riferimento a detta finalità;

– escludeva, alla luce della complessiva valutazione delle circostanze e modalità del corteo, e pur in presenza di ostentazione di simboli e saluti fascisti, che la manifestazione avesse assunto connotati tali da suggestionare in concreto la folla inducendo nei presenti sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, che ne ha chiesto l’annullamento, denunciando errata interpretazione e applicazione della legge penale.

Secondo il ricorrente, che ha ripercorso la ricostruzione dei fatti e gli aspetti di totale convergenza tra le valutazioni e le conclusioni del proprio Ufficio e quelle del Giudice della udienza preliminare, oltre alle valutazioni espresse nella sentenza impugnata, il Giudice ha fatto erroneamente derivare la inoffensività della manifestazione e del corteo non dai connotati oggettivi concreti dell’adunata, ma dal fine della sua organizzazione, creando confusione tra il profilo oggettivo dell’offesa e quello soggettivo del motivo dell’agire, in alcun modo preso in considerazione dal legislatore, e ha valorizzato aspetti e circostanze oggettivi del tutto irrilevanti, come l’assenza di violenza o di minaccia, ovvero non del tutto corrispondenti alla realtà accertata, come l’assenza di frasi o slogan evocativi, pervenendo a conclusioni non aderenti alle risultanze accertate e basate su una non corretta interpretazione del disposto normativo.

2.1. Il Giudice, ad avviso del ricorrente che ha anche richiamato la giurisprudenza costituzionale, nell’individuare a quale partito allude la L. n. 645 del 1952, art. 5, ha interpretato in senso restrittivo il riferimento al pericolo di ricostituzione del partito nazionale fascista, mirando la indicata norma a impedire non la ricostituzione della “struttura” di detto partito nel suo specifico apparato istituzionale, gerarchico, militare ed economico, quale instauratosi nel 1921, ma del suo fondamento ideologico e del suo metodo di lotta, e quindi la costituzione e diffusione di un associazionismo neo-fascista, ovvero, “attraverso l’apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito fascista, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l’assetto dello Stato”.

2.2. Il Giudice, inoltre, nell’enunciare come dovesse essere inteso il pericolo di ricostituzione del partito fascista e in presenza di quali condizioni potesse essere ritenuto integrato in concreto, ha ritenuto penalmente irrilevanti frasi e manifestazioni precedenti gli atti di “ricostituzione” di una organizzazione di stampo fascista in quanto prive di offensività, in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 74 del 1958), secondo la quale la manifestazione per avere rilevanza penale deve essere idonea, anche solo, alla “diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione del partito fascista”, anticipando la soglia di offensività del fatto.

La sentenza impugnata, inoltre, ha richiesto – al fine del giudizio di idoneità offensiva del fatto – “la suggestione” della folla, mentre per la legge è richiesta “l’idoneità a provocare adesioni e consensi”, che rappresenta un effetto diverso e più lieve della suggestione; ha valorizzato la mancanza di violenza o di aggressività nei confronti dei presenti e l’assenza di armi, che sono, invece, fattori irrilevanti, non contemplati in alcun modo dal legislatore; è andata di diverso avviso rispetto all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che nella recente sentenza n. 37577 del 25 marzo 2014 della prima sezione penale, ha ritenuto il “saluto romano” e la “chiamata del presente” durante una pubblica manifestazione sussumibili sotto la norma di cui al suddetto art. 5; ha svolto apprezzamenti contraddittori laddove ha indicato dei casi in cui la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che ricorressero gli estremi del reato de quo e non ha poi riconosciuto gli stessi estremi in quello in esame.

2.3. Secondo il ricorrente, la manifestazione in oggetto è stata imponente, attesa la partecipazione di oltre mille persone, e la commemorazione, ricalcata dal Giudice per escludere la offensività concreta, non ha avuto a oggetto tre uomini uccisi, ma tre “camerati”, ossia tre uomini uccisi in quanto fascisti, qualificandosi per una componente ideologica ineliminabile, che ha “determinato, animato e pervaso l’adunata, la quale ha assunto quel significato e, pericolosamente, ha trasmesso quel messaggio pubblico”.

Proprio l’atmosfera di serietà e il silenzio nel quale hanno sfilato i partecipanti, la loro postura e il tono di voce imperativo, contrariamente alle determinazioni del Giudice, non hanno smorzato affatto la portata simbolica della manifestazione, ma semmai l’hanno accresciuta, rivestendola di solennità.

2.4. Nessun dubbio sussiste pertanto, a avviso del ricorrente, sulla capacità della ritualità adottata a suscitare o rafforzare nei presenti sentimenti nostalgici nei confronti del partito fascista e operare, oggettivamente, come veicolo di proselitismo, di adesione e di consenso, concorrendo alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione del detto partito.

Motivi della decisione

1. Si rileva che il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Milano, pronunciandosi con sentenza di pari data a quella oggetto del ricorso per cassazione discusso nel corso della odierna udienza camerale, ha dichiarato non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. nei confronti di G.F., C.L.A., A.A.A., Ar.St., Ca.Ro., T.M.E. e Ta.Gi.St., imputati del medesimo reato contestato all’odierno imputato V., separatamente giudicato, a seguito di unica richiesta di rinvio a giudizio del 16 dicembre 2014 e di fissazione della medesima udienza preliminare, per la chiesta sospensione del procedimento per messa alla prova, non accolta per la ritenuta sussistenza delle condizioni per una pronuncia di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p..

2. Questa prima sezione penale, già intervenuta sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Milano avverso la indicata sentenza del 10 giugno 2015 del Giudice della udienza preliminare nel proc. n. 12357/14 RG a carico dei predetti imputati, ne ha dichiarato la inammissibilità con sentenza n. Sez. 861/2016 – n. R.G. 1038/2017 del 2 marzo 2016.

Da tale precedente -attinente al medesimo presupposto fattuale e alle medesime questioni oggetto dell’odierno dibattito giudiziario, attestate dalla identità dei contenuti delle sentenze che, con veste diversa (ex art. 129 c.p.p. l’una ed ex art. 425 c.p.p. l’altra), sono pervenute alla medesima formula di proscioglimento per insussistenza del fatto nei confronti di coimputati concorrenti nel medesimo unico reato, e dalla sovrapponibilità dei proposti ricorsi- questo Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, ritenendo, al contrario, di condividere la decisione di inammissibilità del ricorso e le ragioni che la sostengono.

3. Tale qui richiamata decisione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano così motivando:

“(…) Invero, con l’impugnazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano solo formalmente viene prospettata una violazione di legge, e precisamente l’errata interpretazione e applicazione del disposto di cui alla L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 5 (c.d. Legge Scelba), ma in realtà è richiesta un’inammissibile rivalutazione delle circostanze attentamente e congruamente esaminate dal G.u.p. del Tribunale di Milano.

Invero, come da consolidato orientamento di questa Corte (si veda per tutte Sez. 2, n. 32839 del 09/05/2012, di cui si ripercorrono le argomentazioni), in questa sede è preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi il giudice della legittimità limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito. Quindi, non possono avere rilevanza le censure volte ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite.

Tanto premesso, va osservato che la pronuncia impugnata – come ampiamente esaminato, sopra, in punto di fatto – muove dall’attenta analisi della disposizione normativa di cui al suddetto art. 5 – il quale, novellato ai sensi della L. n. 152 del 1975, art. 11, testualmente recita: “chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito (…)”- alla luce degli interventi della Corte Costituzionale sopra delineati (che fanno leva sulla necessità di interpretarla come diretta conseguenza della 12^ disp. trans. Cost., la quale prevede – quale corollario dell’approdo al sistema democratico di rappresentanza politica – il divieto di ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista). Inferendone, in modo corretto sotto il profilo giuridico e logico, la configurazione della fattispecie oggetto di contestazione quale reato di pericolo concreto. E ritenendo, pertanto, le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascisti non vietate in sè, attese la libertà di espressione e di libera manifestazione del pensiero costituzionalmente garantite, ma solo se possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute, e quindi se attentano alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori allo stesso sottesi. E ciò in piena conformità alla “intenzione del legislatore” come evidenziata dalla Corte delle leggi, che nella sentenza n. 74 del 1958 sottolinea come “chi esamini il testo dell’art. 5 della legge isolatamente dalle altre disposizioni, e si limiti a darne una interpretazione letterale, può essere indotto (…) a supporre che la norma denunziata preveda come fatto punibile qualunque parola o gesto, anche il più innocuo, che ricordi comunque il regime fascista e gli uomini che lo impersonarono (…)”, trascurando che il legislatore “ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall’art. 21 Cost., bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che (…) possono determinare il pericolo che si è voluto evitare”. Ed evidenzia, inoltre:

– che “la denominazione adottata dalla L. del 1952 e l’uso dell’avverbio fanno chiaramente intendere che, seppure il fatto può essere commesso da una sola persona, esso deve trovare nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostruzione di organizzazioni fasciste”;

– che “la ratio della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta ad attuare la disposizione 12^ della Costituzione” avendo il legislatore “compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle” ed avendo voluto “colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione”;

– che con questa interpretazione – coerente a quella data nella precedente sentenza n. 1 del 1957 della stessa Corte all’art. 4 della stessa legge, in cui si specifica che “l’apologia del fascismo per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista” – “la norma denunziata si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla 12^ disposizione transitoria, nè contravviene al principio dell’art. 21 Cost., comma 1”.

Principi tutti, poi, ribaditi dalla successiva sentenza della Corte Costituzionale n. 15 del 1973, che ha specificato come il summenzionato art. 5 “attui il disposto della 12^ disposizione transitoria, la quale, in vista della realizzazione di un ben determinato scopo, pone dei limiti all’esercizio dei diritti di libertà enunciati” dagli artt. 17 e 21 Cost..

Il Giudice a quo, passando, quindi, alla valutazione della fattispecie concreta posta alla sua attenzione, dopo avere esaminato alcuni casi – sopra riportati nel fatto – in cui detto pericolo in concreto è stato ravvisato dalla giurisprudenza di questa Corte, vuoi per le modalità di incitamento alla violenza vuoi per il contesto indicativo della volontà degli agenti di suscitare consensi alla ricostituzione di organizzazioni fasciste, conclude, in modo del tutto logico e coerente sia col dato normativo come deve essere interpretato che con le risultanze investigative, per l’assoluta inoffensività del fatto e, quindi, per l’insussistenza degli estremi del reato contestato. Rilevando, invero, che “le manifestazioni, certamente di carattere fascista e con una indubbia simbologia fascista” (il saluto romano, la chiamata del presente e l’uso della croce celtica) “erano esclusivamente rivolte ai defunti, in segno di omaggio e umana pietà e non avevano alcuna finalità di restaurazione fascista”; inoltre, che il corteo si era svolto secondo “modalità ordinate e rispettose”, “in assoluto silenzio (…) senza che venisse intonato alcun canto, inno fascista o venissero pronunciate frasi o slogan comunque evocativi del partito fascista”, senza alcun accenno a “comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti nei confronti dei presenti”, senza “armi o altri strumenti” e senza “riferimenti a lotte o rivendicazioni politiche” (limitandosi lo striscione in testa al corteo a rendere “onore ai camerati caduti”). Circostanze, tutte, che lo portano ad escludere che la manifestazione abbia assunto “connotati tali da suggestionare concretamente le folle inducendo negli astanti sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista”.

A fronte di dette solide argomentazioni, il P. M. – come in punto di fatto ampiamente esaminato – insiste sul carattere offensivo della manifestazione in considerazione dei suoi concreti connotati oggettivi e della sua idoneità a provocare adesioni e consensi, al pari degli altri casi citati nella sentenza impugnata, nonchè sull’irrilevanza della mancanza di violenza e di aggressività e dell’assenza di armi e sull’ineliminabile componente ideologica di detta manifestazione in quanto commemorazione di “tre “camerati”, tre uomini uccisi in quanto fascisti”, accentuata proprio dalla solennità espressa dal silenzio e dall’ordine. E richiama una sentenza di questa Corte – Sez. 1, n. 37577 del 25/03/2014, dep. 12/09/2014, Bonazza e altro, Rv. 259826 – la quale ha ritenuto che “il saluto romano” e la “chiamata del presente”, compiuti in un determinato, differente contesto, fossero sussumibili nella fattispecie contestata. Ma il ricorrente trascura che detta pronuncia muove proprio dall’interpretazione della c.d. Legge Scelba, offerta dalle sentenze della Corte Costituzionale sopra citate, ribadendo in proposito: “va escluso, infatti, che la libertà di manifestazione del pensiero possa andare esente da limitazioni lì dove la condotta tenuta risulti violatrice di altri interessi costituzionalmente protetti (si veda quanto affermato dalla stessa Corte nella sentenza n. 65 del 1970 in tema di apologia punibile e di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica) e tra questi rientrano le esigenze di tutela dell’ordine democratico cui è preposta la 12^ disposizione transitoria in tema di divieto di ricostituzione del partito fascista”. Sottolineando come sia “legittima l’incriminazione di condotte che risultino possibili e concreti antecedenti causali di ciò che resta costituzionalmente inibito, ossia la riorganizzazione del disciolto partito fascista, e ciò in relazione alle modalità di realizzazione delle stesse, posto che (…) il fatto deve trovare nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste”; e come non sia “la manifestazione esteriore in quanto tale ad essere oggetto di incriminazione, bensì il suo venire in essere in condizioni di pubblicità tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione, il che esclude ogni contrasto con gli invocati parametri costituzionali, alla luce di quanto detto in precedenza”.

Sentenza, quindi, che, lungi dallo smentire, come prospettato dal ricorrente, il Giudice a quo, ribadisce l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma (in senso restrittivo, in adesione al principio di diritto stabilito della giurisprudenza del Giudice delle leggi), alla quale il Giudice territoriale ha aderito e che è, peraltro, quella su cui si è sempre attestata la giurisprudenza di legittimità, anche in epoca risalente. Come evidenziato dalla stessa sentenza n. 74 del 1958, nel riportare la pronuncia della Sez. 3 di questa Corte del 16 gennaio 1958, che già aveva interpretato il summenzionato art. 5 nel senso ribadito dalla Corte Costituzionale. “Non crede questo Supremo Collegio che il criterio interpretativo di così ampia portata adottato dalla Corte Costituzionale” riferendosi a quello relativo all’apologia del fascismo di cui all’art. 4 della stessa legge – “sia suscettibile di modificazioni e che esso non conservi la sua validità anche quando non trattasi di atti che integrino vera e propria apologia del fascismo ma si esauriscono in manifestazioni come il canto degli inni fascisti, poichè si ha ragione di ritenere anche che queste manifestazioni di carattere apologetico debbano essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista e che, quando questi requisiti sussistono, l’ipotesi di cui all’art. 5 legge citata è costituzionalmente legittima. Questo principio è fondato sulla stessa ratio legis, che è quella di evitare, attraverso l’apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l’assetto dello Stato: esso non può non investire ogni singola disposizione di cui si compone la L. 20 giugno 1952”.

E, proprio nell’alveo di detta, consolidata, interpretazione, la sentenza di questa Corte n. 37577 del 2014, invocata dal ricorrente, ritenne, nel caso sottoposto al suo scrutinio, che il giudice di merito, avesse “correttamente ricostruito la vicenda”, ravvisando nella specie – in considerazione del particolare contesto delle manifestazioni incriminate – la “pericolosità concreta della condotta” delittuosa, in relazione alla “idoneità lesiva per la tenuta dell’ordinamento democratico”, avendo accertato “tratta(rsi) di comportamento idoneo a rafforzare una volontà di riorganizzazione” del partito fascista e tanto rispondendo “non solo al modello legale di riferimento ma alla stessa interpretazione adeguatrice”.

Nello stesso senso – di una interpretazione e applicazione della norma, che ricollegano l’idoneità offensiva di un’esternazione di stampo “fascista”, ovvero dell’uso di simboli di tale stampo, all’evocazione del fondamento ideologico del partito fascista e del suo metodo di lotta politica basato sulla violenza – si muove la sentenza impugnata, laddove, valutate, in punto di fatto, le condotte addebitate ai ricorrenti, ha accertato, con giudizio di merito, che non ricorreva il pericolo della pericolosità in concreto, nei sensi indicati, sanzionato dalla norma incriminatrice (…). E ciò nell’ottica, costituzionalmente orientata, della salvaguardia dei diritti e delle libertà sancite dagli artt. 21 e 49 Cost..

Ottica che giustifica la necessità della interpretazione restrittiva della norma, proprio per renderla conforme allo spirito della stessa e non farla collidere con i valori costituzionalmente garantiti.

A fronte della valutazione di merito del fatto in oggetto, operata dal Giudice territoriale, il ricorrente oppone una diversa lettura degli elementi fattuali, che, in presenza di un corretto metodo valutativo come quello sopra esposto e di un iter argomentativo scevro da vizi logici e giuridici, non può in alcun modo essere presa in considerazione in questa sede, non integrando alcun vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini (cfr. Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999, Alberti, Rv. 215331; Sez. 1, n. 1496 dell’11/03/1998, Marrazzo, Rv. 211027; Sez. Un., n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199391).

Questa Corte, infatti, non “deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento” (v. in generale, per tutte, Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, Elia, RV. 229639, e, con specifico riferimento ai reati di espressione previsti dalla legge c.d. Scelba: Sez. 2, n. 11106 del 23/05/1979, Guerin, Rv. 143745; Sez. 2, n. 581 del 10/10/1978 -dep. 1979, Campisi, Rv. 140857; Sez. 2, n. 5689 del 17/11/1976, dep. 1977, Cella, Rv. 135764) “.

4. Segue, in linea con tali precisazioni e considerazioni in fatto e in diritto, l’adozione dello stesso epilogo decisorio.

Alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso non segue la condanna del ricorrente, parte pubblica, al pagamento nè delle spese processuali nè della sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 20 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2017

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2 comments

roberto michele mazzilli 11 Settembre 2017 - 10:33

non ci ho capito niente, però capisco il risultato: Fiano che fai ??

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