Questo articolo, che si sofferma sulle assurdità del National Geographic antirazzista, è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2018.
Devo ammettere che sono un po’ confuso. Da qualche tempo sono un appassionato lettore del National Geographic, forse la più celebre rivista di divulgazione del mondo, ma ultimamente sfogliarla mi suscita un po’ di perplessità. Faccio un esempio. Il numero di aprile – uno speciale – è intitolato Questione di pelle. Sulla copertina c’è scritto: «Razza: non è una realtà biologica ma una invenzione sociale». Bene, pare di capire che i signori del NatGeo ci vogliano spiegare che, in fondo, siamo tutti uguali. Solo che, alle pagine 6 e 7 del fascicolo, mi imbatto in qualcosa di strano. Ci sono due foto gigantesche affiancate: quella di una scimmia e quella di un bambino bianco, biondo e con gli occhi azzurri. Sotto, compare la frase: «Il profilo genetico di questi due è uguale quasi al 99 per cento». Ora, forse gli illustri redattori non se ne sono resi conto, ma l’effetto è grottesco. Affiancano un bambino bianco e una scimmia? Non sfuggirà ai maligni il sottinteso razzista… Ma pensate che cosa sarebbe accaduto se avessero affiancato la foto del primate a quella di un bambino nero, spiegando che il loro patrimonio genetico è sostanzialmente identico… Eppure, stando a ciò che la rivista sostiene, non ci sarebbe stato nulla di falso. Di paradossi del genere ce ne sono praticamente in ogni pagina.
I cortocircuiti del NatGeo
Il fatto è, dicevo, che sono un po’ confuso. Non capisco perché il National Geographic, per decine di pagine, vada ripetendo che siamo tutti uguali, salvo poi dedicare un articolo al fatto che «c’è più diversità in Africa che in tutti gli altri continenti messi insieme». A corredo del pezzo, ci sono ben 18 foto di africani, ognuno dei quali ha la pelle di una sfumatura diversa. Ma se siamo tutti simili e pressoché identici alle scimmie, che senso ha insistere sul valore delle differenze? Se noto la diversità fra un africano color dell’ebano e uno a tinte caffelatte va bene, ma se mostro quella tra un candido svedese e un nigeriano allora sono razzista?
La lettura del nuovo numero
fa riflettere su quanto
sia diffusa e pervasiva
la propaganda multiculturalista
Se la razza non è importante, perché a pagina 82 il NatGeo mi spiega che «il concetto stesso di whiteness è fondato sul presupposto di non essere una minoranza», ribadendo che i neri sono discriminati? Sul serio, non capisco. Tra l’altro, poche pagine prima, la rivista mi ha informato che, negli Stati Uniti, «nel giro di alcuni decenni l’intera popolazione bianca non ispanica sarà in minoranza in tutto il Paese». Forse il punto è proprio questo: si può essere orgogliosi della propria «razza» solo se non si è bianchi. E se anche le razze non esistono, i neri e gli ispanici hanno diritto a vantarsi della loro appartenenza etnica.
Comunque sia, la lettura del National Geographic fa riflettere su quanto sia diffusa e pervasiva la propaganda multiculturalista. Il numero sulle razze si apre con un articolo in cui Susan Goldberg – bianca e liberal, alla direzione della rivista dal 2014 – si scusa per il «passato razzismo» della testata (esiste dal 1888, potete solo immaginarvi che diamine di articoli abbia pubblicato sull’Africa…). L’edizione italiana, poi, contiene un lungo servizio sui «nuovi italiani», in pratica una tirata a favore dello ius soli in cui si rifriggono le consuete banalità. Non stupisce: è l’ennesimo esempio di come il NatGeo si sia trasformato nella bibbia del politically correct. Mesi addietro aveva dedicato un intero numero al gender: anche lì si ribadiva che siamo tutti identici; poi però compariva un elenco smisurato comprendente tutti i modi «giusti» per definire i vari orientamenti sessuali (cisgender, gender neutral etc etc). Altro che uguaglianza: è il trionfo della differenza imposta per decreto, e utile a sezionare l’umanità in segmenti di mercato da colonizzare.
Il mantra antirazzista
Razzismo, gender… Che cosa manca? Ah, sì: la predica a favore dell’integrazione dei musulmani. A questo pensa un altro numero speciale del NatGeo, un fascicolo della serie chiamata «Storica». L’introduzione è già chiarissima: «Sono molteplici i pregiudizi che pesano sulla nostra conoscenza dell’islam», attacca. «Primo fra tutti è quello secondo il quale i cristiani occidentali e i musulmani sarebbero “nemici storici”, destinati a scontrarsi per motivi geopolitici, se non metastorici. Tale idea preconcetta è frutto di una visione distorta, superficiale e retorica». Andiamo bene. Secoli di conflitti vengono ridotti a pregiudizio. Del resto, il volume presenta l’espansione islamica come una liberazione: «Le popolazioni, stanche della tirannia e del degrado dei vecchi sistemi, accolsero i musulmani come liberatori e in molti si convertirono», leggiamo. Certo che si convertivano, altrimenti venivano condannati a essere cittadini di serie B, o peggio.
Persino il concetto di jihad, secondo il National Geographic, è da intendersi in senso positivo. «In realtà», leggiamo, «jihad significa sforzo individuale di ciascun fedele per arrivare a essere un buon musulmano. È un impegno spirituale piuttosto che una guerra santa». A pagina 36, il concetto viene ulteriormente approfondito: «Ai cinque pilastri [i fondamenti dell’islam, ndr] bisogna aggiungerne, secondo alcuni, un sesto, che in determinati momenti può trasformarsi in qualcosa di fondamentale: la jihad, lo “sforzo”, tradotto normalmente, ma in maniera erronea, con l’espressione ambigua di “guerra santa”». Peccato che David Cook, docente di Studi religiosi alla Rice University di Houston, abbia realizzato un monumentale studio sulla materia da cui emerge una realtà un pochino differente. Secondo Cook, «il significato primario e fondamentale del termine Jihad, quale definito dai giuristi musulmani e dagli studiosi della legge classici, e praticato dai musulmani in epoca premoderna» è «guerra connotata in senso religioso». Insomma, il primo significato di jihad non è quello di «sforzo individuale» o «spirituale», ma di guerra condotta secondo le indicazioni del Corano.
Ormai il «NatGeo»
si è trasformato
nella bibbia
del politically correct
Mica è finita. Il NatGeo tiene a precisare che, se oggi gli europei conoscono i testi dell’antichità classica, è grazie ai musulmani e alla «unità mediterranea» da essi edificata, la quale consentì all’Occidente europeo di «cominciare ad estrapolare conoscenze dal patrimonio culturale perso con la decadenza dei secoli dell’Alto medioevo». Tesi confutata, qualche anno fa, dall’autorevole storico francese Sylvain Gouguenheim, che per questo fu linciato dalla comunità accademica e bersagliato da appelli di vari intellettuali sui quotidiani di sinistra. La versione che deve essere trasmessa al grande pubblico, infatti, è proprio quella diffusa dal National Geographic, che a pagina 112 spiega: «I contributi di scienza, filosofia e letteratura arabe furono fondamentali per il rinascimento culturale dell’Occidente cristiano». Già, se l’Europa è quello che è, dobbiamo ringraziare i musulmani.
Le fake news da sfatare, secondo la rivista, sono ben altre. Per esempio la storia della battaglia di Poitiers del 732, in cui Carlo Martello sconfisse e uccise Abd Al Rahman. Secondo il National Geographic, bisogna sminuire «l’importanza che si attribuisce a questa campagna militare e anche alla minaccia saracena nei confronti dell’Europa settentrionale». La vicenda di Carlo Martello è «un mito», «uno dei primi e più forti caposaldi creativi della poesia epica medievale e della propaganda cristiana». Ecco chi fa propaganda: i crociati europei, quei bastardi. Per concludere: mi permetto di dare un suggerimento ai vertici del National Geographic. Se sono così convinti delle loro idee, si presentino al cospetto di un autorevole musulmano sunnita, per esempio il grande imam della moschea di Al Azhar, al Cairo. Gli spieghino che cosa sono i «cisgender» e poi lo informino che, tra lui e una scimmia, c’è solo un 1% di differenza a livello genetico. E vediamo la reazione.
Francesco Borgonovo