Roma, 4 giu – Le nazioni occidentali stanno scivolando sempre di più sul piano inclinato del declino antropologico. Il crollo demografico, la caduta generale del quoziente intellettivo, la diffusione di patologie da artificializzazione dell’esistenza, l’instabilità identitaria, l’inettitudine crescente di fronte al conflitto e all’impegno. Questa crisi dell’uomo europeo non è solo materiale o sociale: è una crisi dell’essere, alimentata da un sistema educativo ormai incapace di formare corpi e coscienze saldi.
Il declino antropologico dei popoli europei
Dati recenti ci parlano con chiarezza. Secondo la piattaforma Sport e Salute, in Europa quasi 1 adulto su 2 non pratica alcuna attività fisica, e tra i giovani i livelli di sedentarietà hanno raggiunto soglie allarmanti. L’OMS ha definito l’inattività fisica «la quarta causa di morte nel mondo». Si muore per mancanza di forza. E si muore — aggiungiamo — per mancanza di ethos. Il quadro è aggravato da dati recenti, come quelli pubblicati da Health Desk: l’80% dei giovani europei vive già oggi con almeno un fattore di rischio per malattie croniche, spesso legato a inattività, cattiva alimentazione, obesità o esposizione precoce a contenuti digitali.A questo si può aggiungere il crollo silenzioso della sessualità reale, come rilevato dall’indagine della Società Italiana di Andrologia: un ragazzo su tre ricorre al sesso esclusivamente virtuale, e oltre 1,6 milioni di giovani italiani tra i 18 e i 35 anni non hanno mai avuto rapporti sessuali. È così che la “pace dei sensi” soppianta il desiderio mentre il contatto fisico si dissolve in uno scorrere di immagini digitali. I sistemi sanitari sono in crisi non solo per mancanza di risorse, ma perché il corpo europeo è sempre più debole, sempre meno educato alla resistenza. Il problema, dunque, non è solo clinico ma culturale: abbiamo disimparato a prenderci cura della forza.
Cesare Bonacossa e l’atleta-eroe
In questo scenario di declino antropologico, a causa di tendenze diverse ma convergenti, vale la pena riscoprire il pensiero di un autore poco ricordato ma quanto mai attuale: Cesare Bonacossa. Giornalista, scrittore, orientalista, già proprietario della Gazzetta dello Sport, Bonacossa fu anche collaboratore dell’Università di Pavia, a cui è oggi intitolato il Centro Studi Popoli Extraeuropei. Nel 1939 pubblicò ”Aspetti atletici dell’eroe”: non una semplice riflessione sportiva, ma una filosofia del corpo come fondamento dell’etica civile. Il suo atleta non è un ginnasta da palestre borghesi, ma un “legionario che affronta le battaglie atletiche nel nome del popolo”, un uomo completo, che unisce muscolo e spirito, gesto e pensiero. Nella figura dell’atleta-eroe – secondo lui – la scuola ritrova la sua missione originaria: forgiare caratteri, non fabbricare competenze. «Le discipline atletiche non debbono essere fine a se stesse», scrive, «ma rafforzino nell’individuo la coscienza psico-neuro-muscolare di una perenne e vigilante ascesa». È il corpo stesso che diventa mezzo di educazione morale, veicolo di verticalità, vigore, disciplina. In tempi in cui la scuola moderna ha abdicato alla propria funzione formativa, accontentandosi di “insegnare” a conformarsi al mondo liquido, Bonacossa ricorda che l’educazione è preparazione al conflitto, non al compromesso. Un’inversione di prospettiva radicale rispetto alla scuola borghese che abitua gli studenti alla società come contratto.
La cultura come esperienza corporea
Questa visione, per quanto radicata in un’altra epoca, dialoga sorprendentemente con la filosofia di Merleau-Ponty, secondo cui il corpo è il luogo originario dell’esperienza, “ciò attraverso cui c’è spazio”. Il gesto non è meccanico, ma modo di essere nel mondo. Bonacossa e Merleau-Ponty, da posizioni diverse, affermano entrambi che l’educazione vera è incarnata, che la conoscenza nasce dall’esperienza, non dal consumo di dati. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di corpi resistenti, di spiriti agonisti, di giovani capaci di dire “io posso” davanti alla declino programmato dei nostri popoli. In effetti, il dramma dell’Occidente è quello di aver rinunciato a se stesso in nome della neutralità, della sicurezza, del comfort. Ma nessuna civiltà sopravvive a lungo se non educa i propri figli a portare il peso del mondo, ad abbracciare la fatica, a cercare l’eccellenza come dovere e destino. Su questo panorama l’atleta-eroe-studente si staglia come possibile risposta: rifiuto della pigrizia intellettuale e fisica, fondazione di un ethos condiviso, riaffermazione del diritto e del dovere di essere padroni del proprio spazio geopolitico come del proprio corpo.
Contro il declino antropologico la filosofia della lotta
A completare questo quadro, giunge una riflessione filosofica recente che merita attenzione perché reca con sè una possibilità di riscatto. In un intervento sul Foglio, il filosofo Simone Regazzoni ha criticato con lucidità la riduzione linguistica della corporeità teorizzata da Judith Butler e da certa pseudo-scienza progressista. Secondo Regazzoni, «l’epoca della metafisica del linguaggio è stata l’epoca della domesticazione dell’essere», in cui anche il corpo e la sessualità sono stati assoggettati al dominio del simbolico. Ma oggi, sostiene il filosofo, è tempo di tornare a pensare immersi nella forza selvaggia dell’essere, in quella dimensione pulsionale, primordiale, opaca che Schelling definiva “stoffa fondamentale di ogni esistente”. Questo ritorno al corpo non come oggetto, ma come potenza non addomesticabile, è perfettamente in linea con l’intuizione pedagogica di Bonacossa: l’atleta-eroe non è il risultato di un discorso, ma l’incarnazione di una forza che esiste, che plasma, che educa al limite e alla verticalità. Se la filosofia contemporanea più attenta e meno buonista ci invita a uscire dal recinto del linguaggio per tornare alla materia selvaggia del vivente, la scuola dovrebbe fare lo stesso: non formare semplici “parlanti”, ma uomini capaci di sopportare il mondo, di desiderare, di generare, di agire. È in questo spazio liminale fra pensiero e carne, fra filosofia e ascesi, che si può ancora scorgere la via per la rigenerazione europea.
Sergio Filacchioni