Roma, 12 apr – Una rimonta riuscita, che è già leggenda, e una rimonta sfiorata, che lascia tanta amarezza. È questo il responso che esce dalla doppia sfida di Champions al cardiopalma tra Roma e Juventus da una parte, e Barcellona e Real Madrid dall’altra. Il calcio italiano contro quello spagnolo: una sfida tra titani, una lotta tra due filosofie di gioco, tra due modi differenti d’intendere l’antica arte del football. Dopo anni di indiscussa egemonia iberica e di prematuri requiem recitati all’indirizzo del calcio azzurro, stavolta siamo stati noi a dar lezioni ai matadores del calcio europeo.
Nelle gare di ritorno, il più grave errore di Real e Barça è stato, innanzitutto, di dare per spacciate le dirette avversarie. Certo, non è mai facile gestire, a livello mentale, dei vantaggi notevoli come quelli maturati al Camp Nou (4-1 dei blaugrana sui giallorossi) e allo Stadium (0-3 dei merengues sui bianconeri). E l’arroganza a volte ti frega, se la superiorità tecnica (indiscutibile) non si accompagna alla superiorità tattica e psicologica (tutta e sempre da dimostrare). Nasce esattamente così il risultato spettacolare dell’Olimpico: la Roma di Di Francesco, ridisegnata dal suo generale in un 3-4-3 d’assalto, ha letteralmente asfaltato il Barcellona di Sua Maestà Lionel Messi. Pressing alto e continuo, sfibrante per gli avversari, difesa attenta e granitica, incursioni letali dei centrocampisti, rapidità delle punte. Il Barça, insomma, non ha quasi mai visto palla. E così De Rossi e compagni sono riusciti in un’impresa epica. Un’impresa, però, che forse è stata definita troppo di fretta come un «miracolo»: perché la Roma non è approdata in semifinale in base a delle favorevoli coincidenze astrali, ma perché ha dominato, non ha concesso nulla, ha imposto il suo gioco veloce e il suo cuore indomito a un Barça arrogante e imbambolato, irriconoscibile (soprattutto per meriti giallorossi, più che per demeriti catalani).
Un po’ diversa è stata invece la partita del Bernabeu, nella quale la Juventus di Allegri ha sfiorato la clamorosa remuntada. Ed è forse qui che è venuta fuori in maniera più lampante la differenza tra calcio italiano e calcio spagnolo. Perché la Juve non ha dominato. Anzi, il Real ha giocato con voglia e carattere, spesso riuscendo a imporre il proprio gioco, soprattutto nel secondo tempo. Ma i bianconeri, evitando gli errori commessi nella gara d’andata, hanno espresso nella maniera migliore il «gioco all’italiana»: difesa compatta, impenetrabile e ripartenze micidiali. Pur orfana di Dybala, la Juve ci ha messo testa e cuore ma, soprattutto, ha interpretato magistralmente le diverse fasi della gara, che è una specialità molto italiana: dosare le energie, capire quando spingere e quando arretrare, quando colpire e quando incassare. La sequenza dei gol, non a caso, è stata perfetta e nasce da questa interpretazione: la prima rete è arrivata in apertura dopo una partenza lampo, la seconda al 37’, dopo aver fatto sfogare i blancos, invano, e la terza al quarto d’ora della ripresa, nel momento in cui il panico si era impossessato dei madridisti.
A quel punto Allegri, dopo la notevole profusione di energie, ha deciso di portare la sua squadra ai supplementari, non operando quindi i due cambi rimasti. Zidane, invece, ha rischiato il tutto per tutto (se la Juve avesse segnato il quarto gol, il Real ne avrebbe dovuti realizzare due), facendo entrare Asensio, Lucas Vazquez e Kovacic, che si sono rivelati decisivi nella rincorsa alla qualificazione. Poi, a 30 secondi dal termine, la beffa e la «fine del sogno», come ha detto Buffon. Eppure, al di là delle polemiche arbitrali (che francamente lasciano il tempo che trovano), la Juve può comunque essere fiera di aver terrorizzato i blancos fino all’ultimo respiro. E può essere orgogliosa di aver dimostrato che il calcio italiano, se applicato con testa e cuore, è tutt’altro che defunto.
Valerio Benedetti
Cuore, compattezza, velocità. Così il calcio italiano ha dato una lezione agli spagnoli
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