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Dalle ONC all’infosfera: una pratica “Tecnofascista” di guerriglia

by Sergio Filacchioni
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ONC

Roma, 24 mar – L’occupazione come atto rivoluzionario è sempre stata una delle forme più evidenti di resistenza politica, un gesto che si colloca tra l’imposizione di una sovranità alternativa e la creazione di uno spazio autonomo sottratto – anche solo temporaneamente – al controllo dello Stato. Dai tempi delle prime ONC (Occupazione non conforme), l’interrogativo è rimasto se tale atto sia un’azione di pura contestazione o una strategia effettiva per la costruzione di un nuovo ordine.

Le ONC, tra Schmitt e Bey

L’occupazione, nelle sue diverse manifestazioni storiche ha sempre oscillato tra questi due poli. Un confronto tra la teoria delle Zone Temporaneamente Autonome (T.A.Z.) di Hakim Bey e la dottrina della sovranità di Carl Schmitt permette di illuminare il dilemma nella sua essenza più profonda. Da un lato, Hakim Bey (padre dell’anarchismo ontologico) concepisce l’occupazione come una sottrazione volontaria alla logica del potere. Le T.A.Z., secondo lo “stregone anarco-beat“, sono spazi che emergono spontaneamente, si affermano nel vuoto lasciato dal controllo statale e si dissolvono prima di essere represse o inglobate nel sistema. La loro forza non sta nella permanenza, ma nell’effimero, nella capacità di creare momenti di libertà al di fuori delle strutture gerarchiche, senza l’intenzione di sostituirle con nuove forme di dominio. L’occupazione, in questa prospettiva, è un atto ludico e politico allo stesso tempo, un’apertura del reale verso un’utopia momentanea che non può e non deve cristallizzarsi in istituzione. Carl Schmitt (giurista tedesco), al contrario vede la politica come il terreno dello scontro tra sovranità contrapposte. Per lui, il vero sovrano è “colui che decide sullo stato di eccezione“, ovvero colui che può sospendere l’ordine giuridico per fondarne uno nuovo. In quest’ottica, l’occupazione non sarebbe solo una sfida temporanea al potere costituito, ma un atto di guerra politica in cui la presa di uno spazio implica la ridefinizione di chi ha il diritto di governarlo.

Una contesa sullo spazio

Non è un caso che molte occupazioni politiche, soprattutto quelle di matrice rivoluzionaria o identitaria, abbiano cercato non di dissolversi, ma di radicarsi, di trasformarsi da eventi occasionali in avamposti di un nuovo ordine. Il caso di CasaPound e delle sue occupazioni in Italia dimostra bene questa differenza tra la fluidità delle T.A.Z. e la visione schmittiana della politica. Se inizialmente CasaPound ha adottato tecniche di sottrazione simili a quelle delle T.A.Z., appropriandosi di spazi per creare aree di autonomia culturale e politica, il suo obiettivo non era la dissoluzione dell’ordine dominante, bensì la sua sostituzione. Le occupazioni non erano pensate per essere momentanee, ma per divenire punti di riferimento permanenti, centri di aggregazione in grado di esercitare un’influenza sul territorio e di costruire un’identità collettiva. La loro logica è stata quella della conquista e della sovranità alternativa, non della ritirata e della sottrazione. Qui il confronto tra Bey e Schmitt si fa più netto: mentre il primo vede l’occupazione come una parentesi anarchica che sfugge alla logica del potere e dello scontro frontale (“la taz è come un’insurrezione che non si scontra direttamente con lo Stato“), il secondo la interpreta come un’azione che non può che risolversi in una presa di potere, perché ogni spazio liberato è inevitabilmente destinato a essere conteso, governato o perso.

Durare o sparire: questo è il dilemma

Questo solleva un ulteriore interrogativo: l’occupazione è davvero rivoluzionaria se non mira a durare? Se un’azione di sottrazione non costruisce nulla di permanente, non rischia di trasformarsi in una semplice evasione, in un gesto simbolico senza conseguenze? Le esperienze storiche mostrano che, per quanto l’occupazione possa inizialmente porsi come un atto di rottura, la sua efficacia politica dipende dalla capacità di tradurre l’atto simbolico in un progetto concreto. Lo stesso Bey riconosce che non può esserci “fuga all’indietro nel tempo verso una paleolitica ‘società originaria del tempo libero’, nessuna utopia eterna, nessun rifugio montano, nessuna isoletta e neppure alcuna utopia post-rivoluzionaria“. Se la rivoluzione è solo un momento di sospensione, finisce per essere assorbita dal sistema senza lasciare traccia. Al contrario, se diventa un punto di non ritorno, una ridefinizione dello spazio e della sovranità, allora smette di essere una semplice eccezione e diventa fondazione di un nuovo ordine. Eppure, proprio qui sta la contraddizione: più l’occupazione tende a istituzionalizzarsi, più rischia di perdere il suo carattere originario di rottura. L’esperienza delle T.A.Z. suggerisce che l’unico modo per restare fedeli allo spirito rivoluzionario è evitare il consolidamento, abbracciare l’instabilità come unica condizione di libertà. Ma questo significa anche rinunciare alla pretesa di trasformare il mondo, limitandosi a creare brevi istanti di autonomia che si dissolvono non appena vengono riconosciuti. In questo senso, il confronto tra Bey e Schmitt non è solo teorico, ma si riflette nelle scelte di ogni movimento che usa l’occupazione come strumento politico: fuggire o combattere, dissolversi o radicarsi, creare spazi momentanei o rivendicare territori. La risposta dipende dalla visione che si ha della rivoluzione: è un’interruzione momentanea dell’ordine o la sua sostituzione definitiva? La storia ha mostrato che nessuna occupazione è veramente neutra: ogni spazio sottratto al controllo statale pone inevitabilmente la questione di chi abbia il diritto di decidere su di esso. E in questa decisione si gioca il senso stesso dell’occupare come atto rivoluzionario.

La nostra rivoluzione sarà una figata pazzesca

Un dilemma da cui si rischia di non uscire se non ci si concentra sul vero e unico “atto rivoluzionario“: occupare non è solo una questione politica, ma un’espressione estetica, un’opera d’arte vivente, una manifestazione del potere creativo dell’azione collettiva. Se la politica è in realtà lotta per l’immaginario, allora ogni occupazione è una scultura di spazio e tempo, una riscrittura del reale attraverso il gesto radicale di trasformare un luogo da anonimo a significativo. La differenza tra l’occupazione come puro atto di resistenza e l’occupazione come creazione di un nuovo ordine sta nella sua capacità di incidere sulla percezione, di generare un’estetica del dissenso, di imporre la propria narrazione attraverso simboli, atmosfere, rituali. L’estetica della T.A.Z. di Hakim Bey è profondamente situazionista: la zona autonoma è una festa, una performance, un happening che dissolve la distinzione tra arte e politica. È il trionfo dell’effimero, la celebrazione della provvisorietà come unica forma autentica di libertà. Qui l’occupazione è un evento che si esaurisce nella sua stessa esplosione: un rave illegale in una fabbrica abbandonata, una biblioteca anarchica allestita in una scuola chiusa, un giardino clandestino in un lotto urbano dimenticato. Il significato non è nella durata, ma nell’intensità. È un’estetica del lampo, dello squarcio nel reale, della parentesi di utopia che si apre e si richiude prima di essere inghiottita dal sistema. Schmitt, al contrario, vede il politico come costruzione di miti durevoli, di simboli che non devono dissolversi, ma radicarsi, stratificarsi nel tempo. Anche la sovranità è un atto estetico: impone segni, marca lo spazio con la propria presenza. Qui l’occupazione non è una festa che si dissolve, ma una liturgia che si stabilizza, un’iconografia che si consolida nella memoria collettiva. È la trasformazione di un edificio occupato in un centro di identità politica, la creazione di un’estetica militante che segna il territorio, la costruzione di un immaginario visivo che imprime nell’architettura, nei murales, nelle bandiere la volontà di permanere. Insomma, una rivoluzione non può non essere una “festa” (o una figata pazzesca come recitava un vecchio slogan del Blocco Studentesco), un momento erotico oltre che eroico: non è un caso che Bey proponga l’impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio come esempio di T.A.Z. e di moderna repubblica piratesca.

La sfida del tempo

La differenza è chiara: le T.A.Z. si esprimono attraverso la leggerezza e il nomadismo, mentre l’occupazione “schmittiana” cerca radicamento e monumentalità. Ma la domanda resta: quale delle due strategie è più efficace nel lungo periodo? L’arte effimera ha il fascino del sovvertimento, ma rischia di non lasciare traccia; l’estetica della stabilità ha il potere della continuità, ma rischia di trasformarsi in conservazione. C’è un punto in cui queste due visioni si toccano? Forse sì, nel momento in cui si comprende che ogni rivoluzione ha bisogno di entrambi gli elementi: l’energia esplosiva dell’effimero e la forza simbolica della costruzione. I movimenti più incisivi hanno sempre saputo giocare su entrambi i piani, creando eventi che rompono il ritmo della quotidianità, ma anche edificando miti che resistono al tempo. L’occupazione come atto estetico è allora una questione di equilibrio tra violenza di un “gesto primitivo” e persistenza del segno lasciato nello spazio. È un’architettura del conflitto, dove ogni gesto è un’opera d’arte situazionista e simultaneamente un’icona di sovranità, un graffito che verrà cancellato il giorno dopo o un monumento che segnerà il paesaggio per generazioni. Ma in fondo, anche l’infinito è provvisorio e Lovecraft ci ricorda che sulle grandi scale del tempo “anche la morte può morire“: il graffito condivide con il monumento la stessa natura provvisoria, la medesima incertezza.

Per una guerriglia “tecno-fascista”

Se l’occupazione è un atto rivoluzionario che oscilla tra l’effimero e il permanente, tra la sottrazione anarchica e l’affermazione sovrana, allora la sfida del futuro è comprendere come questa dialettica possa tradursi in una nuova strategia per il dominio nell’era digitale. L’occupazione del territorio ha segnato le rivoluzioni del Novecento, ma il XXI secolo è il tempo della smaterializzazione, del controllo algoritmico, della guerra dell’immaginario. Qui emerge la possibilità di una sintesi tra la fluidità delle T.A.Z. e la volontà di sovranità schmittiana: una pratica tecno-fascista dell’occupazione, capace di adattarsi alla post-modernità senza rinunciare alla presa sul reale. Se l’occupazione tradizionale mirava a sottrarre fisicamente spazi al controllo statale, oggi la sfida è conquistare i nodi del potere immateriale, le infrastrutture della percezione e dell’informazione. Il nuovo campo di battaglia non sono solo le strade e gli edifici, ma le reti, i flussi di dati, gli ecosistemi digitali. Il Tecno-Fascismo non può limitarsi a una nostalgia della sovranità territoriale, deve estendere il concetto di occupazione al dominio della narrazione e dell’infrastruttura tecnica. Ciò significa trasformare ogni spazio – fisico o digitale – in un’avanguardia dell’egemonia culturale: occupare il web con strategie di guerriglia memetica, infiltrare i circuiti informativi, costruire comunità autonome basate su tecnologie resistenti alla sorveglianza.

La nuova occupazione

Le T.A.Z. offrivano libertà temporanee per sfuggire al controllo, ma il “Tecno-Fascismo” deve andare oltre: non basta dissolversi prima della repressione, bisogna radicare la propria presenza anche nei domini virtuali, trasformando spazi anonimi in fortezze simboliche. Portare la tensione volontaristica della politica come atto estetico sul campo dell’infosfera. Il nuovo ordine non si imporrà con la semplice resistenza, ma con una capacità offensiva nel campo della tecnologia, della cultura e della metapolitica. Il sovrano del futuro non sarà solo chi decide sull’eccezione giuridica, ma chi controlla gli algoritmi che plasmano il reale. L’obiettivo non è solo creare zone autonome temporanee, ma strutture capaci di persistere nel caos accelerato della modernità. Server indipendenti, economie alternative, estetiche dirompenti, domini simbolici che impongano una nuova egemonia culturale: questa è la nuova occupazione, un atto che non si limita a contestare l’ordine esistente, ma ne disegna già il superamento in avanti.

Sergio Filacchioni

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