Washington, 3 set – Per la terza volta dal 2005 gli Usa sono colpiti da un disastro naturale che miete numerose vittime e provoca danni plurimiliardari. L’uragano Katrina uccise quasi 2000 persone e comportò danni pari a 130 miliardi di dollari. Nel 2012, l’uragano Sandy uccise oltre cento persone e provocò danni per 65 miliardi di dollari nella città di New York. Da notare che pochi anni prima la società americana degli ingegneri civili si riunì a Manhattan per discutere di barriere protettive nella regione della città di New York. Essa stimò che il costo della più grande si aggirasse intorno ai 9 miliardi di dollari. Il governo decise però di non procedere. Anche in Texas e Louisiana analoghi progetti di contenimento furono scartati in più riprese a causa del loro costo “eccessivo”.
Non sufggirà una certa analogia con il caso italiano: anche in Italia basta che la terra tremi o che cadano due gocce e ci ritroviamo intere città rase al suolo, vite ed attività economiche stroncate e danni per miliardi di euro. Da noi la causa è l’austerità che ci impedisce di spendere anche quei pochi soldi necessari alla ricostruzione, figurarsi alla prevenzione dei disastri. Negli Usa, patria del “libero mercato” la situazione è se possibile ancora più tragica, al punto che Donald Trump impostò la sua campagna elettorale anche su un titanico programma di investimenti pubblici in disavanzo (non curandosi giustamente del debito pubblico) per sistemare il decadente sistema nazionale delle infrastrutture che è fermo alla seconda guerra mondiale ed ai programmi di Roosvelt.
I soldi buttati nell’immenso buco nero noto come Wall Street per salvare le banche in difficoltà non si contano, ma parliamo di migliaia di miliardi di dollari. Idem per la difesa, che inghiotte ogni anno centinaia di miliardi al solo scopo di ingrassare un ristretto numero di grandi imprese legate a doppio filo ai vertici del Pentagono. Per il resto, l’economia americana deperisce nella carenza cronica di investimenti pubblici, che oltre a non permettere lo sviluppo dell’iniziativa privata, non consente nemmeno di erigere anche quelle infrastrutture di base necessarie alla vita civile.
Il solito autorazzismo italiano chiosa che da noi i terremoti fanno così tanti danni perché c’è la “mafia” che lucra sull’edilizia grazie alla “corruzione” della politica. Cosa diranno degli Usa allora, dove la mafia di Wall Street drena impunemente trilioni di dollari pubblici mentre l’ultimo programma nazionale di investimenti è stato il New Deal roosveltiano, oltretutto grandemente sopravvalutato ai fini della propaganda.
Questa breve chiosa per ribadire una questione di importanza storica: la priorità di qualunque politica economica è sempre e comunque il finanziamento di infrastrutture di lungo periodo ad alta intensità di capitali. In Italia o negli Usa o in qualunque altra nazione del pianeta, non cambia la sostanza. Non è la salvezza degli speculatori, non è la “stabilità dei prezzi” o la “moneta unica che ci difende dalle guerre”. Non è il cambiamento climatico e le “piccole opere eco-friendly”. È lo sviluppo, quindi il lavoro che esso porta necessariamente con se.
Matteo Rovatti
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