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Ecco cosa rispondere ai deliri di Carola e dei fan dell’immigrazione

by Giovanni Damiano
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Roma, 17 ago – Ho trovato davvero emblematico il resoconto, apparso sempre sul Primato online, di una intervista concessa dalla ‘capitana’ della Sea Watch ad una emittente tedesca. La tizia in questione parla ad esempio della “responsabilità storica” che i Paesi europei avrebbero nei confronti degli africani e quindi della “necessità di tirarli fuori dalla situazione in cui li abbiamo condotti”. Ora, a parte il fatto che questa presunta responsabilità storica andrebbe accertata in sede scientifica e non certo strumentalmente utilizzata a mo’ di slogan per fini bassamente ideologici, quello che colpisce è l’atteggiamento paternalistico, che finisce per considerare gli africani come eterni bambini incapaci di essere padroni del loro destino ma bisognosi dell’aiuto dell’europeo. Una versione progressista del “fardello dell’uomo bianco” di kiplinghiana memoria, verrebbe da aggiungere.

Tutti profughi?

Altro punto, riguardante le motivazioni degl’immigrati clandestini: “Le storie che ho avuto modo di ascoltare in prima persona raccontano di violenze, di schiavitù, di stupri. Credo sia questo il motivo per cui fuggono”. Ora, a me pare persino banale dover sottolineare il fatto che i clandestini abbiano tutto l’interesse a presentare la loro situazione nel modo più drammatico possibile, per far scattare dei meccanismi di empatia e solidarietà nei loro confronti. Per avere davvero un’idea realistica delle motivazioni che li spingono ad entrare in Europa, bisognerebbe, piuttosto, conoscere la loro storia sin dal contesto d’origine, cosa che è ovviamente preclusa a chi si limita a raccoglierli in mare. Senza contare che anche le Ong hanno tutto l’interesse, in quanto funzionale alla loro agenda ideologica di ‘disinteressati’ salvatori in nome e per conto dell’umanità, a far passare l’idea che i clandestini siano solo e sempre profughi in fuga da violenze e guerre.

Accoglienza senza limiti

Ma il punto dirimente è un altro ancora: alla domanda se debba comunque esistere un limite all’accoglienza, la risposta è secca: “no, a dire il vero”. Risposta ovviamente delirante, se soltanto si pensi all’esplosione demografica del continente africano, ma fanaticamente coerente con la ‘logica’ dei diritti umani che, essendo per loro natura universali, non sopportano limitazioni di sorta, pena il venir meno della loro stessa universalità. Dunque, porte aperte, letteralmente, a chiunque. È chiaro che un’etica del genere (della convinzione, direbbe Max Weber), che risponde solo a se stessa, non produrrà altro che catastrofi, anche se la cosa non disturba minimamente il fanatico ‘umanitario’, che agisce in ossequio alla massima fiat iustitia et pereat mundus.

Modernità multiple

Esistono però degli antidoti a questa vuota, e quindi tanto più pericolosa, retorica. Alludo, a titolo d’esempio, al bel libro di Stephen Smith, Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente, pubblicato dall’Einaudi nel 2018. Innanzitutto Smith afferma (p. XIV) che la storia non è mai scritta in anticipo (concetto che condivido integralmente, tanto più perché, praticamente con le medesime parole, l’ho utilizzato io stesso una dozzina di anni fa), in tal modo sottraendosi alla gabbia dell’inevitabilismo storico e all’idea che le migrazioni siano una sorta di fenomeno naturale pressoché infermabile. Inoltre, l’Africa che vien fuori da questo libro è un continente complesso e dalla molte facce, un continente dove si “costruiscono grattacieli e capanne di fango” (p. 55) e nuovo e arcaico convivono o confliggono, e dove soprattutto, ben al di là del logoro stereotipo dell’arretratezza, sta emergendo un’evidenza fondamentale, vale a dire che l’Africa sta seguendo “un’altra linea di sviluppo” (p. 56) rispetto all’Occidente. Nel leggere questi passi di Smith mi è immediatamente venuto in mente l’accostamento col concetto di Multiple Modernities di Eisenstadt. In breve, non esisterebbe una sola via per la modernità, quella corrispondente al paradigma occidentale, ragion per cui chi si discosterebbe da tale paradigma sarebbe condannato ipso facto all’arretratezza. Tutt’al contrario, esistono molte vie per entrare nella modernità, ognuna ‘calibrata’ sulla base di storie, tradizioni, costumi specifici. E quindi ci si troverebbe di fronte ad una modernità africana, con caratteristiche proprie, non riconducibili, di conseguenza, al modello occidentale pensato come unica pietra di paragone.

All’Africa l’emigrazione non conviene 

Proprio perché la storia non è mai scritta in anticipo, al termine di un volume ricco di dati e analisi, qui purtroppo non riassumibili per ovvie esigenze di spazio, Smith delinea una serie di possibili scenari relativi al futuro rapporto Africa/Europa, letto né in chiave astrattamente armonicista, né in chiave esclusivamente conflittualista, partendo però dal presupposto che, in ogni caso, “la migrazione in massa di africani verso l’Europa non rientra nell’interesse né della giovane Africa né del vecchio continente. Solamente l’ingresso molto selettivo di qualche ‘braccio’ e, soprattutto, ‘cervello’ africano comporterebbe dei vantaggi per l’Europa, considerando il carattere molto competitivo del suo mercato del lavoro […]. Da parte sua, l’Africa ha più da perdere che da guadagnare ‘esportando’ i suoi giovani, quasi fossero un problema e non la soluzione, perché diventeranno la chiave del suo successo non appena sul continente si creeranno condizioni favorevoli alla loro ‘crescita’” (p. 143).

Il narcisismo delle Ong

Mi limito qui a dire qualcosa sullo scenario attinente al discorso sulle Ong, sintetizzato da Smith col termine Eurafrica. In tale contesto “si consacrerebbe l’’americanizzazione’ dell’Europa […]. Analogamente agli Stati Uniti, l’Europa si vorrebbe terra d’immigrazione a pieno titolo” (p. 145). Non a caso, per tale situazione anche Smith ‘scomoda’ l’etica della convinzione, innanzitutto in riferimento all’operato delle Ong, sul quale pone una domanda cruciale: “quale risposta possono fornire [le Ong] a chi rimprovera loro di raccogliere dei fondi per ‘salvare’ dei migranti fermandosi però a mezza strada sul cammino della carità, senza trovare né finanziare posti di lavoro, abitazioni e istruzione a questi disgraziati che hanno contribuito a far arrivare in Europa?” (p. 146). E qui opportunamente Smith richiama l’etica della responsabilità che manca completamente ai narcisisti morali (p. 146) delle Ong. Questo perché, proprio come il narcisista è preso solo da se stesso, alla stessa stregua le Ong si compiacciono narcisisticamente della loro presunta moralità, senza minimamente interessarsi delle ripercussioni delle loro azioni sugli altri, costretti, senza oltretutto aver avuto alcuna voce in capitolo, a farsi carico dei loro costi socio-economici e culturali.

L’Eurafrica non ci salverà

Anzi, proprio in merito alle conseguenze, Smith è assai esplicito nel prevedere che “l’Eurafrica significherà la fine della sicurezza sociale in Europa, come ben noto fondata su un contratto di solidarietà intergenerazionale. Lo Stato di welfare senza frontiere è una contraddizione in termini […]. Lo Stato sociale non s’adatta alle porte aperte, donde l’assenza storica di una sicurezza sociale degna di questo nome negli Stati Uniti, paese d’immigrazione per eccellenza” (p. 146). A rimanere sarebbe soltanto lo Stato di diritto, però decisamente poco bastevole “in una società senza un minimo di codice comune” (p. 147), ovvero priva di capitale sociale, inteso come “un insieme di credenze e valori che facilitano la cooperazione fra i membri di una comunità “ (Emanuele Felice). Smith inoltre si sofferma (p. 148) sull’aumento esponenziale delle domande d’asilo (80mila nel 1983, 1,2 milioni nel 2016), denunciandone “l’evidente abuso” (p. 148); in pratica, il diritto d’asilo ridotto a mero escamotage per regolarizzare l’immigrazione clandestina. Fermo restando, per chiudere, che comunque “qualsiasi tentativo esclusivamente sicuritario è votato al fallimento” (p. 149), una possibile soluzione potrà essere probabilmente trovata in un mix di proposte (risposta securitaria, accordi bilaterali con i paesi di partenza degli emigranti, aperture selettive e controllate). L’importante è non dimenticare mai il vecchio adagio: “chi dice umanità cerca di ingannarti”.                                                                                   

Giovanni Damiano

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2 comments

Nico 18 Agosto 2019 - 10:52

Purtroppo c’è un disegno funesto in tutta questa faccenda.. portare a più non posso immigrati in Italia allo scopo di infuocare gli animi e il popolo italiano,ed infine far sì che prima o poi si arrivi ad un conflitto etnico che porterà il nostro paese a diventare un campo di battaglia come lo fu’ la ex Jugoslavia.

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Sergi 19 Agosto 2019 - 1:17

Le uniche aree di civiltà in africa si sono trovano nel nord , grazie ad Egizi , Fenici , Greci e Romani ….

Il resto del continente (ricchissimo !!! guardate quanto investono oggi i Cinesi,)
senza gli europei sarebbe fermo al neolitico …..
capanne , lance e nessuna capacità nella produzione agricola .
Cacciatori/raccoglitori .

Non ricordo chi disse, credo un missionario :

Non date da mangiare , date zappe , sementi ed insegnate a costruire pozzi , così si aiuta l’africa .
Altrimenti vorranno che voi li nutriate senza “fare nulla”.

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