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Ecco perché la religione romana antica non era affatto multiculturale

by La Redazione
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Roma, 5 set – Ho appena finito di leggere sul Primato Nazionale on-line la recensione, direi quasi entusiastica, di Luca Valentini al volume collettaneo Roma, la città degli dei. La capitale dell’Impero come laboratorio religioso, uscito recentemente per i tipi della Carocci. Siccome si tratta di un testo che conosco anch’io, vorrei qui darne una lettura diversa, incentrata su un suo aspetto fondamentale che però non emerge minimamente dalla recensione di Valentini. Per dirla molto sinteticamente, Roma, la città degli dei è il classico esempio di come il sapere specialistico venga messo al servizio di un ben preciso progetto ideologico. Un progetto che, tra l’altro, non abbisogna di particolare perspicacia per essere colto, visto che viene apertamente ‘squadernato’, così da non lasciare al lettore dubbio alcuno sulla sua natura.
Il chiarimento di tale operazione politico-culturale viene demandato, more solito, all’introduzione e alle conclusioni, mentre la maggior parte dei contributi mette in mostra la ‘classica’ neutralità accademica. Si legge infatti nell’introduzione, a firma di Ennio Sanzi e Corinne Bonnet, i due curatori dell’opera, che Roma, “attrattiva, dinamica, aperta, dal forte potere aggregativo e persino coinvolgente, appare come un immenso laboratorio multiculturale” (p. 16; corsivo mio). E ancora: Roma avrebbe dato vita “a una realtà religiosa multiculturale, ovverosia ‘aperta’, un argumentum, oggi, di un’attualità drammatica e di fronte alla quale ancora una volta lo studio dell’uomo antico corrobora tutte le persone ‘di buona volontà’ nel non abbassare mai la guardia nei confronti dei pericoli legati alle demagogiche generalizzazioni sempre acritiche e astoriche” (p. 26; sempre mio il corsivo). Verrebbe da commentare, alla latina, medice cura te ipsum
Andiamo ora alle conclusioni, se possibile ancor più esplicite, sempre a firma del duo di cui sopra: “inutile (o, meglio, molto utile!) sottolineare le cogenti analogie di quanto fin qui ricordato con la contemporaneità nella quale siamo chiamati a essere cittadini di Stati ‘aperti’, ancor più nel momento in cui si sentono voci crudeli che parlano di nuove e disumane mura, di qualsiasi natura esse siano, da innalzare al fine di negare il naturale movimento degli uomini nell’ecumene” (p. 397). Non credo ci sia bisogno di ulteriori commenti.
Due parole vanno invece spese per alcuni contributi, anche in questo caso non privi di concessioni allo ‘spirito del tempo’; ad esempio la Bonnet, nel suo lavoro dedicato a Cibele, arriva a scrivere, a proposito dei galli, cioè i sacerdoti della Mater Magna: “lo status di gallo, per quanto denigrato, non avrebbe potuto, anch’esso, destare l’interesse dei ‘transgender’ romani i quali avrebbero potuto realizzare, grazie a ciò, una parte delle loro aspirazioni di genere, vivere in una sorta di comunità collegata a un santuario e riuscire a ottenere così un ruolo in un culto riconosciuto?” (p. 34). Il saggio sul rapporto tra la dea cartaginese Tanit e la romana dea Caelestis di Claudia Santi, tutto volto a dimostrare che in fondo i romani erano tanto accoglienti da trovare uno spazio nel proprio pantheon persino a una dea dell’esecrata Cartagine, mi sembra particolarmente problematico, basato com’è su di un’unica fonte, per altro molto tarda, vale a dire Servio, in cui tra l’altro il rituale dell’evocatio, a detta della stessa autrice, non è nemmeno chiaramente attestato ma solo frutto di “un’allusione” (p. 271). Insomma, il volume, pur comprensivo di diversi contributi molto interessanti, resta comunque un esempio di come la cultura venga piegata ad esigenze di carattere ideologico. E proprio per questo motivo, anzi soprattutto per questo motivo, è bene non ingenerare equivoci al riguardo e non cadere, il che è peggio, in interpretazioni unilaterali che passino sotto silenzio la stessa ragion d’essere di quest’opera.
Giovanni Damiano

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1 commento

paleolibertario 5 Settembre 2018 - 2:55

Bell’articolo di Damiano. È il solito vizio dei “progressisti”: dire che il nemico era in realtà uno dei tuoi (naturalmente dopo la sconfitta, ideale e fattuale). Pensiamo anche all’appropriazione di Nietzsche. Sulla questione specifica dell’antica Roma non mi esprimo, mi fido di Damiano.

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