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“Fake news”: il nuovo processo alle opinioni

by Redazione
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Daniele ScaleaRoma, 30 mar – “Post-verità”, eletta parola dell’anno dall’Oxford Dictionaries, è un vocabolo entrato sempre più prepotentemente nel linguaggio comune e dei media. Con questo termine si vogliono indicare circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto agli appelli alle emozioni e alle credenze personali. La diffusione dell’idea di “post-verità” è indissolubilmente legata a due eventi recenti: la Brexit e la vittoria elettorale di Trump. Non a caso. L’establishment, le elites accademiche, i giornali “impegnati” e le sinistre liberal hanno trovato con la “post-verità” una facile spiegazione ai loro fallimenti e all’ascesa delle cosiddette destre populiste, capaci solamente, nella loro visione, di parlare alla “pancia” del paese usando argomenti strumentali se non palesemente falsi. In una parola: le “fake news”.

Mettere in discussione la sbrigativa lettura sopra descritta è stato il principale merito del convegno “Post-verità o post-libertà?”, tenutosi ieri presso la Camera dei deputati e promosso dal Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, che nella stessa sede aveva già recentemente discusso un altro tema centrale del nostro tempo quale la dicotomia globalismo/sovranità. Dopo il saluto istituzionale dell’on. Guglielmo Picchi, Dario Citati, esponente del Machiavelli, ha preso di petto il tema ricordando come le “fake news” non nascano certo oggi, basti pensare alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein quale causa dell’intervento in Iraq datato 2003. Motivazione poi rivelatasi clamorosamente falsa, tesa solamente a coprire gli interessi degli Stati Uniti e delle potenze alleate, l’Inghilterra del laburista Blair in prima fila. Sulla stessa scia ha proseguito Thomas D. Williams, corrispondente a Roma del sito americano Breitbart, che ha sottolineato i rischi che nasconde l’idea, molto popolare in USA ma anche dalle nostre parti, di un controllo preventivo delle notizie per arginare la disinformazione delle “fake news”. Questa censura “protettiva” darebbe un potere enorme a chi se ne facesse carico, nascondendo inoltre un’aria di fastidioso paternalismo nei confronti del popolo «rozzo e ingnorante». Il rischio più grande però è quello che tutto ciò diventi un’arma politica, utile per estromettere e squalificare avversari scomodi. Come se facili etichette come «razzista», «nazista» o «populista», fin troppo abusate nel dibattito odierno, non abbiano già fatto abbastanza danni e demonizzazioni a senso unico. Inutile sottolineare, infatti, che social network come Facebook abbiano da tempo assunto un chiaro colore politico sfruttando l’enorme massa di informazioni in loro possesso.

Piero Vietti del «Foglio» ha offerto altri spunti di riflessione, sottolineando la strumentalità del tema “post-verità”, portato al centro del dibattito da quella sinistra liberal che si era impegnata per anni a “decostruire” l’idea di verità quale semplice frutto dell’interpretazione e non di rigidi canoni “oggettivi” su cui piegare le opinioni. Ma tutto sta diventando utile pur di squalificare l’avversario politico e i suoi valori, liquidati come frutto di bassi istinti o palesi falsità, nonostante grandi organi di stampa come «Repubblica» si siano in passato più volte macchiati di diffusione di “fake news” pur di confermare il pregiudizio dei propri lettori e screditare chiunque si opponga alla loro idea di società e di progresso.

«Dobbiamo eliminare gli ignoranti dall’elettorato»: difficile esprimere meglio di questo recente titolo del Washington Post, ricordato nell’ultimo intervento da Daniele Scalea, tutta la presunzione di un ambiente culturale ferito da recenti avvenimenti politici inaspettati. Scalea ha inoltre messo in rilievo, in un puntuale dossier redatto per l’occasione, le numerose contraddizioni insite dietro il proliferare della prassi del fact-checking, che ha dato vita a numerosi siti (tra questi “PolitiFact” ha addirittura vinto un Pulitzer) che si sono presi la briga di vagliare le opinioni per distinguere quelle “vere” da quelle “false”. Riduzione della complessità a “bianco” o “nero”, ignoranza di metodi scientifici, interessi nascosti (ad esempio, tra i finanziatori della rete Poynter c’è Soros) e sproporzionata “pendenza” politica sono solo le maggiori problematiche emerse. Tanto che, «il fact-checking è stato descritto come giornalismo d’opinione travestito da giornalismo oggettivo o, peggio, velata continuazione della politica per mezzo del giornalismo», riporta Scalea. A questo punto non stupisce che in Italia «si è giunti a sostenere che, anche in assenza di falsità, la semplice ricircolazione di idee che partono dai media di destra non sia definibile “informazione”, ma al più, spregiativamente, “re-informazione”», come scrive ancora Scalea riferendosi a una recente polemica relativa a un video “non omologato” sull’immigrazione ad opera di Luca Donadel.

La delegittimazione dell’avversario politico o la pressione sociale e mediatica verso l’omologazione che si nascondono dietro i democratici a senso unico, i globalizzatori, gli europeisti e i cosmopoliti e le loro crociate contro le “fake news” non appaiono come la soluzione migliore per capire il popolo e dibattere e affrontare le complessità del presente. L’istruzione, la curiosità intellettuale, la passione, l’impegno e lo sviluppo di senso critico restano le armi migliori per interpretare e rapportarsi all’enorme massa di informazioni che circola nella rete e nel mondo globale.

Agostino Nasti

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