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Il fascismo e la lotta alla mafia (Parte I)

by Redazione
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mafiaUna questione che scotta

Era il dicembre di 20 anni fa quando si spegneva Giuseppe Tricoli, professore (Adriano Romualdi fu suo assistente) storico e politico siciliano, il cui contributo culturale attende ancora di essere messo in rilievo in tutto il suo valore. Militante del Movimento Sociale Italiano e deputato all’Assemblea regionale siciliana, Tricoli si occupò nei suoi studi in maniera particolare del Risorgimento, della figura di Mussolini (di cui scrisse una biografia) e infine dei rapporti tra mafia e fascismo[1]. Quest’ultima tematica costituisce uno degli aspetti di maggior interesse della produzione del docente, in quanto Tricoli seppe offrire una lettura della Sicilia degli anni ’20 e ’30 ricca e profonda, in netta antitesi con le sbrigative e superficiali interpretazioni della storiografia ufficiale del dopoguerra. Ci riferiamo in particolare al libro di Christopher Duggan La mafia durante il fascismo (prefazione di Denis Mack Smith) e ai lavori di storici quali Salvatore Lupo, Arrigo Petacco e Nicola Tranfaglia, tutti concordi nel descrivere un regime fascista capace di combattere la mafia solamente a metà, fino a quando le lottetricoli del prefetto Mori furono fermate in nome del compromesso con i potentati locali. Per Tricoli invece non fu assolutamente così: nel suo scritto Il fascismo e la lotta contro la mafia, attingendo sapientemente ad archivi, documenti, memorie e giornali dell’epoca, l’autore ricostruì l’azione del movimento mussoliniano in tutti i suoi aspetti, portando alla luce gli oggettivi successi delle camicie nere contro la mafia e il radicale cambiamento di prospettiva politica della regione siciliana, interrotto solo dal ritorno dei vecchi boss nella Seconda Guerra Mondiale, accompagnati dalle truppe alleate.

La Sicilia restituita allo Stato e alla Nazione

Per ricostruire adeguatamente la storia è necessario rifarsi alle pagine del libro sopra citato (da cui sono tratti i virgolettati successivi, ovvero i passi più incisivi) che stabilisce il punto di partenza nelle parole del filosofo Giovanni Gentile, il quale parla di una Sicilia “sequestrata”[2]. Questa immagine rimanda a un’isola prigioniera di un rigido sistema di cosche e latifondisti, incapace di assorbire movimenti ideologici e culturali nuovi quali l’illuminismo, il romanticismo o il liberalismo. Dopo l’Unità la situazione non cambia, e tutto rimane “gattopardescamente” uguale al passato: il latifondo e la mafia si cristallizzano quali manifestazioni più evidenti di un quadro di arretratezza e immobilismo a tinte fosche. Il sistema partitocratico – clientelare italiano prospera in una tale situazione, esattamente come avviene ai nostri giorni.

Nel primo dopoguerra i fermenti nazionalisti e fascisti sono i primi segnali di un cambiamento significativo, esemplificati da una serie di personaggi spesso poco noti all’opinione pubblica. Stiamo parlando dei circoli culturali che ruotano intorno alla figura del Professore di Diritto Internazionale a Catania, Edoardo Cimbali, in cui si distinguono Grazio e Luigi Condorelli e Gaetano Zingali o ancora dei giovanissimi intellettuali Antonio Aniante, Filippo Anfuso, Vitaliano Brancati e Giuseppe Villaroel, affascinati dal futurismo e dalle polemiche contro l’Italia “passatista” e il conformismo siciliano. Altri nomi di primo piano sono quelli dello storico Francesco Ercole oltre ad Alfredo Cucco e Biagio Pace, animatori del periodico “La Fiamma Nazionale”, foglio di punta del fascismo locale. Le difficoltà iniziali del movimento mussoliniano a penetrare nell’isola sono rese evidenti dalla mancata presentazione di una lista alle elezioni del ’21, mentre solo nella zona sud – orientale si afferma un’organizzazione politica e sociale di buon livello.

Dopo la presa del potere, i ceti dominanti tentano di irretire il fascismo nelle spire avvolgenti della tradizionale logica sicilianista, forti dell’idea che la lotta antibolscevica non avesse senso in una regione che aveva saputo gestirsi da sola ed evitare le violenze del “biennio rosso”: tutto deve rimanere come prima, e al governo Mussolini non sarebbe rimasto che adeguarsi e prenderne atto, come i suoi predecessori. Ma il fascismo ha l’ambizione di essere qualcosa di più che un semplice freno all’avanzata comunista e i suoi propositi rivoluzionari esigono un rinnovamento politico e sociale che non può scendere a compromessi con nessuno, nel nome della ritrovata autorità dello Stato. Il contrasto alla manovra della mafia nei confronti delle camicie nere è totale, come rileva Tricoli: «L’azione compiuta dal fascismo, attraverso l’iniziativa politica dei quadri più lucidi del movimento isolano, il lavorio dei prefetti e la costante vigilanza e presenza in Sicilia di alcuni dirigenti nazionali del PNF dimostra e sottolinea la volontà politica, pur in una delicata fase di transizione, quale è quella tra la fine del ’22 e le elezioni politiche dell’aprile del ’24, di combattere drasticamente il tentativo di inquinamento e di condizionamento del movimento, di preservarne l’autonomia rispetto alle componenti più caratterizzanti del vecchio sistema».

L’idea di Gramsci e Gobetti di un fascismo cooptato dalle vecchie consorterie siciliane non regge a un serio esame storiografico. Il livello dello scontro con la mafia è al contrario altissimo: Gigino Gattuso, Giorgio Schirò, Domenico Perricone sono i nomi dei primi martiri fascisti in questa lotta inevitabile, mentre anche la massoneria (che di lì a poco verrà messa fuori legge) si mobilita contro l’azione fascista nella regione. Nei primi anni ‘20 si susseguono le proteste di piazza contro le violenze mafiose mentre un’intensa azione pubblicistica mette in guardia contro le infiltrazioni, come «l’improvviso filo fascismo dell’Onorevole Drago». Lo sbarramento è tale che Piero Bolzon viene nominato Commissario straordinario per la Sicilia parallelamente all’azione dei dirigenti nazionali Starace, Rocca e Giunta, che convocano un convegno a Siracusa (27 – 28 novembre 1923) con la partecipazione di prefetti e quadri per ribadire fermamente l’importanza e la fermezza dello scontro.

Questa decisione consente al fascismo di porre le basi per una discreta penetrazione nell’immaginario delle masse popolari e negli ambienti politici non compromessi col vecchio sistema: «Il fascismo, grazie all’accorta opera condotta precedentemente sulla complessa realtà politica siciliana, può svolgere una trattativa che evita accuratamente i vecchi partiti nella loro globalità, non cede ai suggerimenti e ai consigli interessati dei quadri dell’agraria isolana e avvicina, invece, singolarmente, secondo le linee di un preventivo disegno selettivo, le personalità del liberalismo nazionale, della democrazia sociale, del social riformismo che, in tempi non sospetti, avevano dimostrato di coltivare sinceramente i valori nazionali o di possedere tensioni non superficiali di carattere popolare e sociale e, perciò, davano sufficiente garanzia per l’assolvimento di quegli impegni rigeneratori che Mussolini aveva assunto nei confronti della società italiana», spiega Tricoli. Grazie all’aiuto del movimento combattentistico, il fascismo stravince le elezioni del ’24 con la tattica elettorale del “blocco nazionale”, riuscendo al contempo a mantenere la sua autonomia se non raggiungere, per Tricoli, «l’egemonizzazione di quelle forze che, fino a quasi quindici mesi prima, occupavano la quasi totalità degli spazi politici e sociali dell’isola».

Lungi dall’essersi fatto cooptare dagli esponenti politici liberali più scaltri, il fascismo utilizza il successo per spazzare via qualsiasi mediazione coi vecchi blocchi egemoni, ponendo le basi per un affermazione definitiva. Il 6 maggio 1924 Mussolini compie un significativo viaggio in Sicilia al termine del quale lancia l’attacco finale: il 28 dello stesso mese Cesare Mori viene nominato prefetto di Trapani, arrivando appena un anno dopo a Palermo con la carica di Superprefetto. È in questo preciso momento che si consuma la frattura definitiva tra il fascismo e la mafia collusa con la politica liberale. Per capire questo passaggio basta rifarsi alle parole di Vittorio Emanuele Orlando, “presidente della Vittoria”, uomo simbolo della vecchia politica che aveva in un primo momento appoggiato il fascismo e il “blocco nazionale”, il quale nel ’25 esprime la sua rabbia antifascista formulando un inequivocabile autoaccusa, che rappresenta la migliore risposta alle letture della storiografia italiana del dopoguerra. Orlando inserisce addirittura la pseudo – cultura mafiosa nel quadro dell’estremo tentativo di difesa della garanzie liberali minacciate dal fascismo: «Or io dico signori, che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione portata fino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono tutti questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tale senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo». Parole quasi disperate, che lacerano il velo di rispettabilità formale mantenuto fino a quel momento dalle classi dirigenti, contribuendo paradossalmente a far crollare il vecchio sistema insieme alla mafia, mentre il popolo, riferisce Tricoli, si convince sempre più della bontà del nuovo governo[3].

L’azione di Mori è devastante e allo stesso tempo a 360 gradi: una fine azione demo – psicologica volta a recuperare la Sicilia allo Stato, secondo l’insegnamento idealistico e gentiliano, accompagna vere e proprie azioni antiguerriglia e retate in grande stile. A Gangi, storica roccaforte mafiosa, la cittadina viene posta sotto assedio mentre si procede alla chiusura delle condotte dell’acqua. Poliziotti e militari rastrellano casa per casa, fino a quando i criminali, stremati e abbandonati dalla gente comune, vengono arrestati in massa. Questo è solo il momento più noto di una serie di spietate azioni antimafiose, elencate passo per passo nel libro di Tricoli. Pensiamo solo alla distruzione delle cosche delle Madonie, di Bagheria, di Temini Imerese, di Mistretta e di Partinico. Il vice commissario Giacomo Spanò è il braccio di destro di Mori nell’azione coordinata di nuclei interprovinciali descritta minuziosamente nei quotidiani e nelle riviste dell’epoca come “Sicilia Nuova”, “Gerarchia” e “La Fiamma”, che accompagnano con temi guerreschi le imprese del prefetto. Alcuni analisti del dopoguerra accuseranno addirittura il modus operandi fascista di eccessiva brutalità. Il risultato è comunque un incontrovertibile miglioramento delle condizioni dell’ordine pubblico, come rilevano le statistiche ufficiali riportate tra gli altri da Mussolini nel celebre discorso dell’Ascensione datato 1927, che persino la storiografia del dopoguerra e alcuni pentiti hanno dovuto riconoscere obtorto collo. (continua)

Agostino Nasti

[1] G. Tricoli, Bonifica integrale e colonizzazione del latifondo in Sicilia, ISSPE, Palermo 1983; Id. Il Fascismo e la lotta contro la mafia, ISSPE, Palermo 1984; Id. Alfredo Cucco. Un siciliano per la nuova Italia, ISSPE, Palermo 1987; Id., Mussolini a Palermo nel 1924, ISSPE, Palermo 1993.

[2] «Ricordiamoci a tal proposito che, nel 1799 i ceti dominanti siciliani, alleandosi con il Borbone detronizzato e con gli inglesi, avevano messo a disposizione la loro Isola affinché divenisse una vera e propria roccaforte contro la penetrazione napoleonica. I baroni erano diventati, allora, determinanti per il mantenimento dell’equilibrio militare nel mediterraneo, ma avevano altresì evitato che la Sicilia si aprisse, come era avvenuto per il resto dell’Europa, al vento di rinnovamento che la Rivoluzione francese aveva suscitato e che le baionette dei soldati napoleonici avevano diffuso. Ciò aveva permesso all’aristocrazia locale di mantenere l’assetto sociale ad essa confacente, favorendo ulteriormente quel “sequestro” della cultura siciliana, da secoli in atto, del quale Giovanni Gentile, già nel 1917, invocava la fine. Infatti la sua tesi su Il Tramonto della cultura siciliana deve intendersi come fine dell’isolamento e confluenza della ricchissima cultura regionale nel grande crogiolo della cultura nazionale italiana». Gabriella Portalone, Il fascismo in Sicilia negli scritti di Giuseppe Tricoli, Rassegna siciliana di storia e cultura, n. 26.

[3] A conferma di questo basta scorrere le pagine di un altro intellettuale siciliano dell’epoca, Pietro Villasevaglios, che descrive la vera e propria gioia delle masse popolari liberate dalla cappa mafiosa e dall’assenza dello Stato. Lo stesso Tricoli non a caso firmerà l’introduzione al libro del Villasevaglios Palermo felicissima, ripubblicato nel 1992.

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