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Fascisti come tanti: Mario Gioda, il sindacalista anarchico

by La Redazione
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Roma, 22 giu – “Così noi, che eravamo, per temperamento, sempre stati all’opposizione, ci siamo di punto in bianco trovati nella legalità. Non solo, ma nel dovere di fare rispettare la legalità stessa. E, poiché era parso al Duce conveniente mantenere il Parlamento, invece che abolirlo, io ed altri miei amici fascisti, ci troviamo nella non prima sospettata condizione di dover tenere discorsi politici in periodo elettorale….. Il mio stupore (nell’essere candidato ndr) non è stato condiviso ed approvato né da voi (si rivolge ai dirigenti fascisti torinesi ndr), né dalle supreme gerarchie fasciste, benevolmente anche da molti e moltissimi miei concittadini, i quali, tutti assieme stavolta, sono riusciti a farmi ingoiare il rospo schedaiolo e allegramente mettermi in croce sul ridicolo calvario elettorale”. Con queste parole, che danno perfettamente l’idea del personaggio, Mario Gioda, torinese,  sindacalista ex anarchico, si giustifica quasi, di fronte ai dirigenti fascisti della sua città, per il fatto di aver accettato le cortesi ma ferme insistenze di Mussolini a che si candidi alle elezioni del 1924.

Interventista “intervenuto” (nonostante sia del 1883, non giovanissimo), è stato costretto ad interrompere la sua presenza al fronte, perché i medici gli hanno diagnosticato una grave forma di leucemia, che lo condurrà presto alla morte, proprio dopo le elezioni. Che non stesse bene, si sapeva, ed infatti il Capo, da Milano per distorglielo dall’idea di partire volontario gli aveva  indirizzato, senza successo, un affettuoso biglietto, che testimonia anche la stima che ne ha: “E’ più utile la tua penna che un fucile superfluo in trincea”. Ma non è servito: ha interrotto per qualche mese la sua battaglia contro i “nemici di dentro”, per poi riprenderla al momento del congedo, fino a rispondere, tra i  primi, all’appello del 23 marzo, in una situazione che non è facile, nella  città delle masse operaie politicizzate, delle occupazioni delle fabbriche, di Gramsci e dell’ ”Ordine Nuovo”.

Ma lui, che pure non ha la fisica baldanza di tanti suoi camerati nel Fascio,  non è tipo da farsi intimidire: già il 2 maggio così scrive a Mussolini: “Carissimo Benito, ti scrivo a tamburo battente. Ieri il fascio si è trasformato in un corpo di guardia. Tutto il giorno vi è stato movimento. Se gli altri si muovevano, al fascio non mancavano gli elementi per una prontissima risposta. L’altra sera, alla Camera del Lavoro, è stata decretata la nostra morte e quella dei fasci. Un amico è riuscito a presenziare all’assemblea. È diventato guardia rossa. Mi ha quindi informato. Per accopparci, occorre, però, una cosa semplicissima: la nostra disposizione a lasciarci accoppare

I rischi che l’adesione al movimento mussoliniano comportano non piegano  il suo spirito e la vicinanza di nuovi compagni di lotta non cambia le sue idee. Se la prende con gli Agnelli, che accusa di illeciti profitti di guerra, è poco convinto dalla vicinanza dei Nazionalisti, e non manca di fissare paletti che sono suoi, ma anche di tutto il migliore fascismo della vigilia: “Occorre parlare chiaro. Il nostro programma non si può adulterare, né aggirare. Noi siamo fattivi e non ci preoccupano né dogmi, né partiti. Sappia però la borghesia che noi non abbiamo sposato la causa nazionale ed internazionale di libertà e giustizia per diventare il suo parafulmine. Non abbiamo pregiudiziali dinastiche. Guardiamo i fatti giorno per giorno. Non si creda, in pieno 1919, che, passata la festa gabbato lo santo. Noi siamo più rivoluzionari di Serrati, il gesuita rosso. Noi non siamo disposti ad abbandonare le chiavi dell’uscio nazionale sotto la porta della borghesia. Se questa non si muove, noi sfonderemo quella porta. Faremo casa pulita, svecchieremo”.

Le sue idee sono pericolose per gli avversari, più dei pugni degli amici-rivali, noti  “cazzottatori”, De Vecchi e Brandimarte: secondo la testimonianza di Battista Santhia, all’epoca giovane “guardia rossa” torinese comandata di vigilanza all’ “Ordine Nuovo” (che è nella stessa strada della sede del Fascio), un gruppo di attivisti comunisti lo sorprende, solo per via,  e gli somministra (forse nell’aprile del ’21, dopo l’incendio della Camera del Lavoro, non è specificato) una razione di olio di ricino, minacciandolo di peggiori sanzioni. È’ un fatto del quale non ho trovato menzione da nessuna altra parte…credo comunque sia vero, e che gli antifascisti vi abbiano steso sopra un velo, chè poco combacia con l’immagine di vittime innocenti che vogliono dare di se stessi, mentre i fascisti non ne fanno menzione per non “sporcare” l’immagine del loro dirigente prematuramente scomparso.

Al momento della morte, l’unanime cordoglio di chi l’ha conosciuto, sarà appena temperato dal suo motto, coniato per le squadre torinesi, che resta una lezione da tenere ancora presente: “ARMARE I CERVELLI E TEMPRARE GLI SPIRITI”

Giacinto Reale

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