Roma, 14 set – “Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. Così il mitico Mario Ferretti apriva la radiocronaca di una delle tappe più epiche di ogni tempo, la Cuneo-Pinerolo del Giro 1949. E pensare che Ferretti rientrava nel mondo delle radiocronache proprio quel giorno, nel quale Coppi scalava in solitudine il Maddalena, il Vars, l’Izoard, il Monginevro ed il Sestriere, arrivando a Pinerolo in solitudine e infliggendo 12 minuti a Gino Bartali, con tutti gli altri ancora più attardati. Basterebbe questo per descrivere di che portata fu la figura di Fausto Coppi, nato a Castellania (Alessandria) il 15 settembre di 100 anni fa. Un campione senza tempo, non il più vincente a guardare il suo palmarès, ma il più grande, il più popolare, l’icona dell’epoca d’oro del ciclismo.
Straordinario campione nelle grandi corse a tappe, capace di vincere cinque volte il Giro d’Italia (record condiviso con Alfredo Binda e Eddy Merckx) e due volte il Tour de France – il primo a vincere entrambi nello stesso anno – Coppi fece sue anche le Classiche Monumento, vincendo cinque volte il Giro di Lombardia (record), tre volte la Milano-Sanremo, una Parigi-Roubaix. Fu anche campione del mondo nel 1953 e si distinse anche nel ciclismo su pista con titoli mondiali e successi di vario genere. Suo fu anche il record dell’ora per 14 anni, dal 1942 al 1956.
La rivalità con Bartali
Attirate le attenzioni del “campionissimo” Costante Girardengo per le sue vittorie da dilettante, Fausto nel 1940 a soli 20 anni si impose nel Giro d’Italia, dove avrebbe dovuto limitarsi a fare il gregario di Bartali (che concluse solamente nono), risultando ancora ad oggi il più giovane vincitore del Giro. La rivalità con Gino Bartali sarebbe esplosa definitivamente nel dopoguerra, tra scatti, controscatti, attacchi, … fu il dominio incontrastato dei due, che spesso si marcavano a vicenda ed arrivarono persino ad annullarsi. Emblematico è l’episodio dei mondiali del 1948 – conosciuto come “vergogna di Valkenburg” – dove i due italiani si controllarono, fino a compromettere la loro gara, e si ritirarono, indispettendo non poco i vertici del ciclismo e il pubblico.
La consacrazione per Coppi arrivò nel 1949, con la doppietta Giro-Tour – ripetuta nel 1952 – vincendo con distacchi siderali, a partire da Bartali, secondo in entrambe le occasioni. Coppi viene ricordato principalmente per la rivalità con “Ginettaccio”, ma nella seconda parte di carriera seppe farsi valere anche in mezzo agli svizzeri Koblet e Kübler, il francese Bobet, contro il “terzo uomo” Fiorenzo Magni (capace di inserirsi spesso tra i due italiani) e tutti gli altri che via via si inserivano nella lotta per la conquista dei Grandi Giri. Gli ultimi due giri per Coppi si conclusero senza grossi sussulti, nel 1956 con un ritiro – giro vinto da Charly Gaul, grazie all’epica impresa nella tappa da “tregenda” con arrivo sul monte Bondone – ed un 32esimo posto in quello del 1958, che fu a 39 anni il suo ultimo giro.
Una vita incredibile
Il poco che c’è da raccontare sulla sua vita dopo il ciclismo è un dramma noto, ma non chiarito del tutto: il viaggio in Burkina Faso per un criterium, seguito da alcune battute di caccia, l’assalto notturno delle zanzare nella camera occupata da Coppi e dal francese Geminiani, la contrazione della malaria. Se Geminiani si salvò, Coppi non fu altrettanto fortunato: si pensa a diagnosi sbagliate, alla scarsa comunicazione dei tempi, seguite da complicazioni successive. Coppi ci lascia a soli 40 anni la mattina del 2 gennaio 1960, salutato dall’addio caloroso delle decine di migliaia le persone presenti al funerale di Castellania per colui che fu un simbolo dell’Italia.
Coppi che non fu esente poi dai riflettori anche nella vita privata, con un matrimonio, la relazione extraconiugale con la cosiddetta Dama Bianca, i figli, il non riconoscimento del nuovo matrimonio. Un Coppi che visse la guerra, andò a combattere, fu catturato, tornò in Italia, disperato lanciò un appello al mondo sportivo intero affinché gli venisse data una bici. Ed ancora, un campione che negli anni terribili 1950-1951 dovette affrontare gli infortuni gravi e la morte del fratello Serse a causa di una caduta al Giro del Piemonte. Egli però reagì cogliendo ulteriori successi ed ulteriore prestigio.
Un simbolo immortale
E Fausto lo ricordiamo così, proprio per le sue epiche imprese, le sue numerose e lunghe fughe solitarie, simbolo del ciclismo che fu e che difficilmente ritornerà; nell’ultimo decennio, di imprese paragonabili, ricordiamo quella di Chris Froome, il quale attaccò sul Colle delle Finestre ad 80 chilometri dal traguardo – la maglia rosa Simon Yates, in crisi quel giorno, pagherà quasi 40 minuti di ritardo – ribaltando e conquistando il Giro 2018. Il ciclismo si è evoluto, la preparazione, le strade, il modo di correre non sono più gli stessi. La grandezza di Coppi, che pur rivoluzionò la preparazione delle corse da un punto di vista scientifico, è diversa da quella dei ciclisti dei nostri tempi. Fausto ha segnato la sua epoca e sarà immortale, il simbolo degli anni d’oro del ciclismo.
Manuel Radaelli