A questo episodio è dedicato un volumetto da poco pubblicato dalle edizioni Arya di Genova. Si tratta del racconto che di questi fatti fece Tito Livio, tradotto e contestualizzato dal professor Renato Del Ponte (Tito Livio Patavino, Hic manebimus optime!, pp. 96, € 18,00). Narra lo scrittore romano che, per sfuggire alla razzia gallica, i Romani si siano rifugiati sul Campigoglio, presso la sede di Giove Ottimo Massimo, in una simbolica ridotta verso il punto più sacro della città, presso il dio che più di ogni altro ha vegliato sulle sorti dell’Urbe. L’esercito di Furio Camillo, tuttavia, libererà Roma dall’assedio e caccerà i Galli. Se il militare romano viene ricordato come “secondo fondatore” dell’Urbe, tuttavia, non è tanto per la vittoria contro le armate di Brenno, quanto per aver salvato una seconda volta Roma, stavolta in tempo di pace. Vedendo la città ridotta a un cumulo di macerie, infatti, i tribuni della plebe insistevano per trasferirsi a Veio con un’emigrazione di massa che ricreasse altrove le fortune della città. Si noti: la logica della Grande Sostituzione, qui, è replicata all’inverso: non è più il popolo a essere intercambiabile, ma la terra. Stare qui o lì, a Roma o a Veio, cosa cambia? Nulla, per una visione materialista. Tutto, se sei una città che si chiama Roma.
E infatti a tale eresia reagì Furio Camillo, con un appassionato discorso in cui ricordò il legame speciale fra Roma e i suoi Dèi, fra Roma e il suo spazio sacro. A che pro, infatti, affrontare simili prove per poi abbandonare la città? Cosa stavano difendendo i Romani che combattevano con i Galli se non quello stesso spazio sacro che ora i tribuni della plebe proponevano di abbandonare? «Ma allora perché abbiamo cercato di riprenderci la patria, perché l’abbiamo strappata dalle mani del nemico quand’era in stato d’assedio, se, dopo averla recuperata, siamo noi ad abbandonarla di nostra spontanea volontà? Quando i Galli vincitori avevano occupato l’intera città, ciò nonostante la cittadella e il Campidoglio erano in mano degli Dèi e degli uomini romani, ora che sono i Romani ad avere la meglio e la città è ritornata interamente nostra, verranno abbandonati anche la cittadella e il Campidoglio, e la nostra buona sorte regalerà a questa città più desolazione di quanta non ne abbia portata la cattiva?».
La pax deorum, l’accordo dei Romani con gli Dèi che è all’origine delle fortune dell’Urbe fin dalla sua fondazione, appare qui cruciale per ribadire il nesso che lega il popolo alla sua terra: «Pur essendo stati abbandonati dagli Dèi e dagli uomini, ciò nonostante non abbiamo mai tralasciato il culto degli Dèi. Per questo essi ci hanno restituito la patria, la vittoria e l’antico splendore militare che avevamo perduto. […] Vedendo queste testimonianze di quanto valga nelle cose umane seguire la divinità o trascurarla, non cominciate, o Quiriti, a intuire che empietà ci avviamo a commettere pur essendo appena scampati dal naufragio di una sconfitta che è la conseguenza della nostra colpa? Abbiamo una città fondata secondo i dovuti auspici ed augùri. In essa non vi è un solo angolo che non sia permeato dall’idea di religione e dalla presenza divina (nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus). I luoghi dei sacrifici solenni sono fissi non meno dei giorni nei quali devono essere offerti».
Del resto, una volta accettato il principio per cui la terra in cui ci si è insediati è intercambiabile con qualsiasi altra, perché fermarsi? Perché attestarsi a un livello intermedio del piano inclinato? Continua Furio Camillo: «Se per motivi dolosi o per circostanze fortuite scoppiasse un incendio a Veio e le fiamme portate dal vento dovessero, come facilmente succede, divorare buona parte dell’abitato, emigreremo di lì a Fidene o a Gabi o in un’altra qualsiasi città? (adeo nihil tenet solum patriae nec haec terra quam matrem appellamus), e il nostro amore verso la patria si riduce alle travi e ai tetti?». Infatti «non senza una ragione gli Dèi e gli uomini scelsero questo luogo per fondare la città (Non sine causa di hominesque hunc urbi condendae locum elegerunt)». Ecco quindi la fondamentale lezione di etica ai Romani dimentichi di cosa rappresenti per loro e per il mondo la città di Roma: «Se in tutta la città non si riuscirà a tirare su nessuna casa che sia più bella o più ampia della famosa capanna del nostro fondatore, non sarebbe meglio abitare in capanne alla maniera di pastori e contadini, ma in mezzo ai nostri penati e ai nostri riti piuttosto che andare in esilio tutti insieme di comune accordo?».
Chiosa, nell’introduzione, Renato Del Ponte: «Camillo inviterà il popolo a non abbandonare il sito di Roma, devastato dai Galli, proprio perché la stabilitas loci è la condizione necessaria non solo e non tanto per la vita umana, ma per la contemporanea presenza del Genius. Proteggere e conservare il Genius Loci significa concretizzarne l’essenza in contesti sempre nuovi: ne è stato proprio il caso di Roma. Venire a patti col Genius del luogo in cui si doveva vivere, significava “sopravvivere”. Hic manebimus optime: qui rimarremo, perché qui è stato segnato il nostro destino, qui è nata la nostra identità…». Proprio per questo motivo c’è chi ha visto in questo discorso «una sorta di manifesto dell’identità romana» (Gianluca De Sanctis, La religione a Roma, Carocci). Roma non è soltanto “travi e tetti”, non è solo una città nel senso banalmente architettonico, “materiale” del termine. Non è neanche un insieme di leggi, una “cultura”, qualcosa di letterario che si possa trapiantare ovunque, un’idea indifferentemente incarnabile in ogni luogo. La romanità non esiste senza Roma. Essere Romani significa essere a Roma, e questo sarà vero anche quando “Romani”, per cittadinanza, lo diventeranno tribù mai passate dall’Urbe: i “barbari” potranno diventare cittadini solo poiché Roma, in ogni caso, esiste, perdura nel tempo, attinge la sua forza al suo suolo sacro e lo proietta nel mondo. Del resto abbandonare quel luogo non si può perché esso non è nella disponibilità puramente umana. Il rito di fondazione chiama direttamente ed esplicitamente in causa gli Dèi. Alle origini della comunità c’è quindi quello che Habermas, ovviamente per deplorarlo, chiamava «il nesso “indisponibile” con una origine». Non certo un contratto oppure “travi e tetti”.
Adriano Scianca
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