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Giorgio Locchi, il problema della tecnica e la tentazione di Prometeo

by Valerio Benedetti
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Locchi Vaj

Roma, 21 gen – «Peso le mie parole: senza Giorgio Locchi e la sua opera […] la vera catena della difesa dell’identità europea si sarebbe probabilmente spezzata. […] Locchi è stato un risvegliatore e un dinamitardo». Così il compianto Guillaume Faye, ricordando il suo caro amico, ha descritto il ruolo che Giorgio Locchi (1923-1992) ha svolto nella storia del pensiero non conforme. Un ruolo centrale, anzi decisivo. Retorica, dirà qualcuno: in effetti, Locchi non è certo tra gli intellettuali più conosciuti della galassia nazional-rivoluzionaria, soprattutto se paragonato a personalità come Alain de Benoist, Julius Evola, Adriano Romualdi, Armin Mohler, Dominique Venner e così via. Eppure, Faye aveva ragione. Se il nome di Locchi non ha ottenuto la stessa popolarità, lo si deve a molteplici fattori, che altrove abbiamo sviscerato ad abundantiam. Ma, ricordava giustamente Faye, l’opera di Locchi «si misura in intensità, non certo in quantità». Infatti, pur avendo scritto poco (come gli rimproverò De Benoist), Locchi ci ha lasciato in eredità vere e proprie pietre miliari del pensiero non conforme.

La lunga odissea degli studi locchiani

Dopo anni di silenzio per così dire «catacombale», finalmente l’opera di Locchi è tornata alla luce. Una luce cha abbaglia. Il lavoro, almeno qui in Italia, è stato lungo e impegnativo: nel 2006 Stefano Vaj, uno dei suoi più infaticabili discepoli, ha curato la pubblicazione di Definizioni (Seb), un’ampia raccolta di scritti locchiani apparsi negli anni Sessanta e Settanta su Nouvelle École, la rivista di riferimento del Grece e, pertanto, della nuova destra francese. E la Nouvelle droite, ribadiamolo, senza Locchi non avrebbe avuto la stessa profondità culturale e lo stesso successo. A distanza di pochi anni, inoltre, la Settimo Sigillo di Enzo Cipriano, altro amico fraterno del pensatore romano, ha riproposto al lettore italiano due importanti opere locchiane: Prospettive indoeuropee (2010) e Il male americano (2015), quest’ultima scritta da Locchi in collaborazione con Alain de Benoist. Nel 2016, è stato poi dato alle stampe Sul senso della storia (Edizioni di Ar): un volume, curato da Giovanni Damiano, in cui venivano riproposti due testi locchiani che riaprivano il dibattito sull’esule di Saint-Cloud e sul suo rapporto con il pensiero di Martin Heidegger.

Da allora, come in un crescendo rossiniano, le pubblicazioni si sono moltiplicate. Nel 2022 è uscita una nuova edizione dell’opus magnum di Locchi, ossia Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista (Passaggio al Bosco). Nel 2023, invece, è stata la volta de L’essenza del fascismo (Altaforte). A parere di chi scrive, questa non è l’opera migliore di Locchi, ma l’edizione curata da Adriano Scianca ha l’indiscutibile merito di aver riproposto l’intervista che Marco Tarchi fece all’autore e che fungeva da appendice al testo originario: un’intervista che ha avuto una genesi molto particolare e travagliata, ma che certamente ci aiuta a comprendere meglio la riflessione locchiana sul fascismo, peraltro sviluppata – in quel caso – come una risposta (critica) a Renzo De Felice. Sempre nel 2023, poi, dagli scrigni della memoria è finalmente riemerso il misterioso inedito Su Heidegger (Settimo Sigillo), un elaborato che Locchi vergò con un programma di scrittura allora pioneristico che, però, ebbe poca fortuna, tanto da diventar presto obsoleto e quasi illeggibile. A questa rapida rassegna bibliografica va aggiunto perlomeno lo studio di Giovanni Damiano Il pensiero dell’origine in Giorgio Locchi (Altaforte, 2021), un’analisi davvero illuminante della speculazione specificamente filosofica dell’esule di Saint-Cloud. Il volume, peraltro, è arricchito da un bel contributo del figlio Pierluigi Locchi che, tra i tanti spunti, ci offre un prezioso profilo biografico del padre. Insomma, il lettore italiano non ha più scuse: ha tutti gli strumenti per conoscere a fondo l’opera locchiana.

L’equivoco transumanista

Al di là del lavoro genuinamente filologico, un testo che può aiutare ad apprezzare l’attualità del pensiero dell’intellettuale romano è sicuramente il recente Scritti su Giorgio Locchi di Stefano Vaj (Centro Produzioni Moira). Questo volume – che peraltro traduce per la prima volta in italiano una recensione di Locchi al Festival di Bayreuth del 1968 – raccoglie diversi contributi di Vaj alla recezione della filosofia locchiana. Una recezione che però, bisogna dirlo, non è mai passiva: Vaj, infatti, non appartiene alla triste schiera degli epigoni e dei pigri glossatori del maestro. Tutt’al contrario, il pensatore milanese ha sempre tentato di fecondare il lascito di Locchi proiettandolo nell’avvenire, ossia applicando le categorie locchiane ai problemi del nostro tempo.

Uno dei temi più originali sollevati da questo libro, che merita un’attenta e meditata lettura, è quello che riguarda i risvolti transumanisti (o postumanisti) della riflessione locchiana. Oggi, in effetti, il concetto di «transumanismo» gode di un’eccezionale vitalità, ma anche di una straordinaria ostilità. In ambito conservatore, ad esempio, il transumanismo è diventato una sorta di ricettacolo di ogni male: un’etichetta che viene generalmente affibbiata alle più grottesche e inquietanti derive del progressismo tecnoscientifico, dalla chirurgia transessualista per minori fino all’utero in affitto finalizzato all’omogenitorialità. Eppure, il transumanismo (o meglio, «sovrumanismo») di Locchi e Vaj è un concetto di tutt’altra consistenza e profondità speculativa.

Locchi, Prometeo e Wotan

Contrariamente a quanto sostenuto dai conservatori odierni, l’uomo non è sempre rimasto uguale a sé stesso: nel corso dei millenni, anzi, ha subìto diverse mutazioni, sia biologiche che culturali. In alcuni casi, si tratta di trasformazioni autoimposte, per adattamento o innovazione. Ebbene, sulla natura dell’uomo Locchi ha sviluppato interessanti riflessioni, ispirandosi all’antropologia filosofica di Arnold Gehlen e all’etologia umana di Konrad Lorenz e Irenäus Eibl-Eibesfeldt. Secondo l’esule di Saint-Cloud, il «primo uomo», cioè l’uomo primitivo, per sopravvivere deve compiere un’opera di autodomesticazione (nomadismo, caccia e raccolta ecc.), mentre il «secondo uomo», quello che emerge dalla rivoluzione neolitica (società stanziale, agricoltura, divisione del lavoro ecc.), procede a una domesticazione della natura. In questo momento, sostiene Locchi, ci troviamo ancora nell’interregnum, da cui uscirà il «terzo uomo». E cioè l’uomo che, forte dei mirabili progressi della tecnoscienza (la «civiltà delle macchine» di spengleriana memoria), sarà in grado di addomesticare la materia-energia. Naturalmente, l’esito di questa trasformazione è tutt’altro che scontato: come ci ha insegnato Nietzsche, ricorda Locchi, le due possibilità su cui si dischiude il nostro presente storico sono il «superuomo» e l’«ultimo uomo». Detto altrimenti: l’uomo potenziato (homo faber, Arbeiter ecc.) che mira a superare sé stesso e ad accedere a nuovi stadi di civiltà, oppure l’uomo rimpicciolito – bramato dalle ideologie egualitariste – che, in uscita dalla storia, si appresta a tornare nel ventre della natura.

I problemi sollevati da queste premesse teoriche sono innumerevoli. Come dobbiamo porci di fronte alla robotica, all’intelligenza artificiale, all’ingegneria genetica? Sono domande che meritano risposte urgenti e originali, rifuggendo dai vade retro Satana di stampo conservatore, che nulla dicono e nulla risolvono. Sia negli Scritti su Giorgio Locchi, sia ne I sentieri della tecnica (2021), Vaj offre diversi spunti di riflessione su queste tematiche che, ultimamente, sono state affrontate anche dai prometeisti (che però, in alcuni casi, hanno adottato approcci comunicativi che rasentano l’autosabotaggio). Qui la discussione, ovviamente, è ancora aperta. Tuttavia, condivido i caveat espressi di recente da Giovanni Damiano: la natura ambigua – a tratti luciferina – del titano Prometeo deve metterci in guardia da certo ottimismo tecnofilo di stampo neopositivistico e tardo-ottocentesco. Il fuoco, infatti, purifica ma, al tempo stesso, distrugge. Per questo Prometeo non va isolato e valorizzato unilateralmente, bensì messo in rapporto con la figura di Orfeo, ossia l’elemento poietico e misterico dello spirito umano. Senza dimenticare, naturalmente, Zeus. Che, come ricorda giustamente Damiano, nella versione platonica del mito prometeico è «il vero philanthropos», giacché «sono i suoi doni a consentire la sopravvivenza dell’uomo». Quello stesso Zeus che – in quanto Dio padre indoeuropeo – assomiglia al Wotan wagneriano (e locchiano) che è pronto anche a perire, pur di generare un nuovo inizio. Una nuova origine di storia.

Valerio Benedetti

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