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Saudi League, un grande fiasco: non c’è calcio senza passione

by Marco Battistini
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Roma, 21 gen – Stadi vuoti, giocatori in fuga e telespettatori che, semplicemente, non esistono. Passato qualche mese dal suo “quarto d’ora” di celebrità, la tanto discussa Saudi League – il massimo livello del calcio in Arabia Saudita – deve fare i conti con un (prevedibilissimo) fiasco. Dopo il velleitario programma cinese, naufragato nel giro di pochi anni, anche l’ambizioso progetto proveniente dalla penisola araba sembra prendere sempre più la forma di una docile tigre di carta. A proposito di deserti: quello di spostare il centro della pedata mondiale al di fuori del Vecchio Continente è un miraggio che persiste. Vediamo perché.

Petrodollari e disinteresse generale

In principio fu Cristiano Ronaldo. Un anno fa il portoghese si è trasferito all’Al-Nassr, assicurandosi un assegno di duecento milioni annui. Il diluvio di petrodollari che durante l’estate ha arricchito le tasche di numerose stelle mondiali – tra gli altri, in ordine di portafoglio: Neymar, Salah, Mané – non ha però garantito un dovuto ritorno, in termini di interesse. Locale, ma soprattutto globale. Dimenticatevi la disneyana Agrabah. Evidentemente vivere a Riad non è così stimolante come farlo a Parigi, Madrid, Londra o Milano. Ecco spiegati i recenti ripensamenti di Benzema, Firmino o Henderson. 

I soldi ci sono – eccome – la qualità sul rettangolo verde pure. O almeno, sta crescendo. Cosa manca al pallone saudita? Lo abbiamo già scritto, ma tra le righe. A latitare sono i tifosi. Allo stadio come in televisione. Ci sono cose che non si possono comprare, verrebbe da dire. Pif e soci hanno acquistato una lussuosissima automobile a cui però manca il motore.

Saudi League, che fiasco: stadi vuoti e pochi telespettatori

Spulciando tra i numeri dell’affluenza negli impianti sauditi, la quasi totalità delle iscritte alla Saudi League registra un clamoroso fiasco alla voce botteghini. Escludendo la compagine di CR7, si viaggia su una media di neanche 7.000 spettatori a partita. Se non un crollo, ci siamo vicini: dodici mesi fa lo stesso dato raggiungeva quota 10.000. Cifre, quelle attuali, inferiori anche al nostro campionato cadetto, quando la Serie A gira sulle 30.000 presenze. E la Premier arriva addirittura a quaranta. Si sa, per vendere lo spettacolo alle televisioni, anche il contesto – ossia i tifosi, il loro colore e la loro passione – è di fondamentale importanza.

Come riportato pochi giorni fa da Il Giornale “l’International Management Group di New York (Img), la più importante società al mondo di marketing sportivo, ingaggiata da Bin Salman per trovare accordi di trasmissione su scala globale, si è trovata di fronte a una lunga serie di rifiuti, e dove il torneo viene irradiato lo share oscilla tra lo 0,8 e l’1,4% di ascolti”. In Italia La7, che ne ha acquistato i diritti per un biennio, raramente raggiunge i 150.000 telespettatori. Per avere un concreto termine di paragone la finale degli spareggi promozione di Lega Pro della scorsa stagione (Lecco-Foggia, con tutto il rispetto non proprio Milan-Juventus) ha superato il milione di utenti.

Un’opportunità per il calcio italiano (ed europeo)

Ma se l’egemonia del calcio europeo è – per il momento – salva, la dispendiosa estate saudita deve aver fatto suonare il campanello d’allarme a tutto il movimento. Senza passione non esiste calcio, ne siamo convinti. Ma non possiamo fermare qui la nosta analisi. Nel 2023 infatti quello che – in Italia come nel Vecchio Continente – è uno dei principali settori industriali, deve fare giocoforza i conti con il suo giro d’affari. Ossia un impatto di circa 10 miliardi sul PIL di casa nostra (e oltre 112.000 posti di lavoro). Senza carburante anche il miglior motore, prima o poi si ferma. Ultimamente si parla di riforma dei campionati e, allargando la prospettiva, di Super League – al netto di ogni dovuto dubbio nutrito sul caso specifico. Il momento di cambiare qualche carte in tavola, forse, è arrivato per davvero. Ma questo è un altro discorso…

Marco Battistini

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