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Giugno: quella forza vitale che va evocata nella Vittoria

by La Redazione
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giunoneRoma, 30 mag – “Ma v’è un Dio in noi, e il nostro fervore creativo nasce dal suo impulso: tale estro possiede i semi della mente divina”. Così Ovidio introduce il mese di giugno, la cui origine del nome egli stesso definisce incerta. L’etimologia intuitivamente collega il mese a Giunone, alla quale erano sempre sacri gli inizi di ogni mese, ma in particolare il primo giorno di giugno si celebrava la ricorrenza della dedica del tempio di Giunone ammonitrice (IunoMoneta), sul Campidoglio. Tito Livio ne racconta l’origine: durante l’assedio dei Galli al Campidoglio, ultimo baluardo a difesa di Roma, su cui si erano asserragliati i Romani, una notte i Galli ne tentarono la conquista, scalando l’erta salita capitolina. Avevano quasi raggiunto l’obiettivo, quando le oche, sacre proprio a Giunone, iniziarono a starnazzare e richiamarono l’attenzione di Marco Manlio (poi detto capitolino) che respinse l’assalto, anche grazie al supporto degli altri Romani accorsi a combattere.

Giugno era anche un mese ritenuto particolarmente propizio per i matrimoni, di cui proprio Giunone era ritenuta patrona. La raffigurazione più ricorrente della Dea come regina la ritrae seduta su un trono con in mano una melagrana, simbolo al tempo stesso di fertilità e di morte. Il suo nome in sé e per sé ci porta genericamente nella sfera della giovinezza, della forza vitale. Giunone e Minerva sostituiscono Marte e Quirino nella triade capitolina. All’apparenza, ciò si traduce in una razionalizzazione delle funzioni, con Giove che governa, Minerva lavora e all’occorrenza combatte, mentre Giunone genera ed allatta e allo stesso tempo fa risaltare importanti aspetti guerrieri. Innanzi tutto, nel mito romano, Giunone viene indicata come la madre di Marte, generato senza l’intervento di Giove grazie all’ausilio di un fiore magico rivelatole da Flora. Spesso Giunone era raffigurata vestita con pelle di capra e armata di lancia e scudo. Tra i fiori le è sacro il bianco giglio (il mito tramanda che Ercole bambino prese di nascosto il latte dalla Dea mentre questa dormiva, ma svegliata da una poppata troppo forte dell’eroe, una goccia cadde in terra dando origine appunto al giglio, ed in cielo, dando origine alla via lattea).

Giunone era anche protettrice della potente città di Vejo, conquistata dai romani con a capo Furio Camillo, dopo dieci anni di assedio ininterrotto.
Sempre Tito Livio descrive l’estrema religiosità dei romani, espressa nel rito dell’evocatio che precede la conquista della città: “… Allo stesso tempo ti prego, regina Giunone, che adesso risiedi a Vejo, di voler seguire noi vincitori nella nostra città che presto sarà anche la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua maestà”. Eppure dopo la conquista della città, adeguatamente sopraffatta ogni resistenza etrusca, di fronte al sacro i Romani seppero nuovamente esprimere a pieno sensibilità insieme a praticità: “Dei giovani scelti da tutto l’esercito, lavati e purificati, con una veste bianca, che dovevano portare a Roma Giunone, entrarono nel tempio con riverenza, dapprima accostando le mani religiosamente, poiché, secondo il costume degli Etruschi, nessuno era solito toccare quella statua se non un sacerdote di una certa stirpe. Poi, quando, per ispirazione divina o per divertimento tipico dell’età, uno di loro disse: ‘Giunone, vuoi venire a Roma?’, gli altri gridarono all’unisono che la dea aveva annuito. Poi si aggiunse a questa leggenda anche il particolare che si udì la sua voce dire di sì; di sicuro si sa che fu rimossa dalla sua base con scarso utilizzo di mezzi e fu leggera e facile da trasportare, quasi venisse da sola”.
Eppure proprio il bianco, colore sacro a Giunone, costò a Furio Camillo la disapprovazione dei romani. Quando tornato a Roma celebrò il trionfo su un carro trainato da cavalli bianchi, al popolo parve che volesse farsi troppo simile a Giove, seppure proprio il trionfo era dedicato al Dio massimo. Di fronte a queste ed altre accuse, in particolare relative alla spartizione del bottino di Vejo, Furio Camilllo scelse allora l’esilio volontario (da cui tornerà proprio per salvare Roma da Galli). Esempi e storie delle nostre origini possono, anzi devono, ispirare azioni e gesta dei nostri giorni: in dieci anni Roma conquistò Vejo e le sue divinità, combattendo con forza senza sosta e valorosamente. Similmente ai vejenti si difendono, arroccati nei palazzi del potere, i difensori di una civiltà morente. Temono l’avanzata di una nuova civiltà, ascoltano terrorizzati i colpi dell’ariete che sta abbattendo le ultime porte chiuse, il crepitio dei fuochi che divampano insieme all’avanzare delle schiere. Possa essere l’inizio di Giugno ricco di eventi fausti che rechino la Vittoria.

Marzio Boni

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Nessuno 31 Maggio 2016 - 12:13

Grazie mille per questo articolo romano.

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