A pochi questo nome, oggi, dice qualcosa. Soprattutto in Italia. Eppure questa figura ha qualcosa di mitico. La sua vita sembra balzata fuori da un libro di
Una biografia, certo, e per di più arricchita da ricerche d’archivio e da documentazione inedita. Ma non solo una biografia. Piuttosto un canto all’avventura e all’estetica della giovinezza, dove Roger Stephane si sposa con André Malraux, facendo balzare l’idea che nella vita molto sia possibile anche quando si pensa che tutto sia finito.
Ma chi era questo personaggio che pare ormai perduto nelle nebbie della storia? Trafficante di hascisc e di armi, contrabbandiere e allevatore di perle, spia per conto dei francesi e non proprio insensibile al fascino dell’Italia mussoliniana al punto da meritarsi la Croce di Guerra appuntata sul petto direttamente dalle mani dal generale Graziani. Un vero e proprio corsaro trapiantato nelle acque del Mar Rosso nel cuore del Novecento, un uomo che non è appartenuto al suo tempo ma che da questo non si è fatto trascinare. Quando nel 1911 lascia la Francia, come un redivivo Rimbaud, lo fa per ricostruirsi una vita.
Non mancano, di suo pugno, decine e decine di libri il cui soggetto non è parto della fantasia ma resoconto delle proprie avventure nel Corno d’Africa. Tra attività di contrabbando e spionaggio, per Francia e Italia, e tesori scomparsi, tra incontri col futuro Negus Hailé Selassié e anni di prigionia il materiale non manca. E nemmeno dopo la guerra mondiale, la seconda, la sua fama di scrittore si eclissa malgrado abbia giocato la partita dalla parte sbagliata.
Continua a scrivere, anche per motivi alimentari, visto che più di una volta le fortune accumulate evaporano come d’incanto. Malgrado l’esperienza di prigioniero di guerra degli inglesi al momento dei rovesci italiani in Africa orientale sfiora lo scranno tra gli Immortali di Francia, ma il posto all’Académie française gli sfugge per un soffio. Eppure la sua vita non diviene meno avventuroso. Anche se gli anni passano quella sorta di estetica della giovinezza di cui Solinas esalta i tratti non si esaurisce.
Nel 1966, risponde al veto di accesso all’Académie a suo modo. Come al solito e come aveva fatto abbandonando la Francia a inizio secolo: decide di non giocare con le carte previste. Così a ottantacinque anni risponde ai soloni letterari dell’epoca incidendo un disco, Le dernier aventurier. Henry de Monfreid chante la mer, dando voce alle vecchie canzoni dei marinai del XVII secolo. A fargli da spalla per il lancio arriva una France Gall, la star yé-yé d’allora. Eppure il disco non conquisterà il successo sperato. Ma questo rovescio non basta a privare de Monfreid dello slancio.
Narcisismo, ricerca forsennata di denaro? Così potrebbero pensare le anime belle sempre pronte a agitare il ditino. A Henry de Monfreid, che sembra si aggirasse per le strade di Parigi con a fianco uno sciacallo e allevasse a casa due manguste, del denaro e della fama importava solo per un motivo: potevano garantirgli quella libertà che ha sempre cercato e a cui non ha mai rinunciato. Nemmeno a novant’anni.
Simone Paliaga
Henry de Monfreid: pirata e chansonnier in camicia nera
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