Roma, 24 mag – È la mattina del 5 maggio 1915 quando a Quarto dei Mille, Genova, Gabriele D’Annunzio viene invitato a tenere il discorso inaugurale del nuovo monumento agli uomini della spedizione di Giuseppe Garibaldi. Siamo in pieno clima interventista e il Vate esula ampiamente dalla mera rievocazione storica per parafrasare in chiave eroica e marziale il “Discorso della Montagna” di evangelica memoria. L’eco del discorso, riportato dai principali quotidiani, sarà tale che il generale Cadorna, dopo averne letto alcuni stralci, si farà ricevere dal primo ministro Salandra. In occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia ne riportiamo la versione integrale (IPN)
Maestà del Re d’Italia, assente e presente;
Popolo grande di Genova, Corpo del risorto San Giorgio;
Liguri delle due riviere e d’oltregiogo;
Italiani d’ogni generazione e d’ ogni confessione, nati dell’unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli;
e voi miracolo mostrato dal non cieco destino, ultimi della sacra schiera sopravviventi in terra, o forse riapparsi oggi dalla profondità della gloria per testimoniare agli immemori, agli increduli, agli indegni come veramente un giorno respirasse in bocche mortali e
moltiplicasse la forza delle ossa caduche quell’anima stessa che qui gira e solleva il bronzo durevole;
voi anche, discendenza carnale della Libertà e di Colui che nel bronzo torreggia immagini vive della sua giovinezza indefessa, che perpetuate pel mondo il suo amore di terra lontana e la sua ansia di combattere i mostri;
e tra voi, ecco, le due Ombre astanti, simili ai Gemelli di Sparta, con nel mezzo del petto quel fonte di sangue che d’improvviso sparse l’odore della primavera italica sopra la melma guerreggiata dell’Argonna;
perché siete oggi qui convenuti, su questa riva oggi a noi misteriosa come quella che inizia un’altra vita, la vita di là, la vita dell’oltre?
Perché siamo qui raccolti come per fare espiazione, come per celebrare un sacrificio, come per ottenere con la preghiera responso e comandamento? Ciascuno di noi lo sa nel suo cuore devoto. Ma conviene sia detto, sotto questo cielo, affinché tutti, dalla maestà del Re all’operaio rude, noi ci sentiamo tremare d’amore come un’anima sola.
Oggi sta su la patria un giorno di porpora; e questo è un ritorno per una nova dipartita, o gente d’Italia.
Se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ecco, in verità, nella nostra vigilia questo bronzo comanda.
È un comandamento alzato sul mare.
È una mole di volontà severa, al cui sommo s’aprono due ali e una ghirlanda s’incurva.
È ingente e potente come il flutto decumano, o marinai, come quell’onda che sorge con più d’impeto dopo le nove che son per seguirla: onda maggiore, che porta e chiama il coraggio.
I resuscitanti eroi sollevano con uno sforzo titanico la gravezza della morte perché il loro creatore in piedi li foggi in immortalità.
In piedi è il creatore, fisso a quella bellezza che sola visse nelle pupille dei nostri martiri e restò suggellata sotto le loro palpebre esangui.
Egli la guarda, egli la scopre, egli la rialza. Sta dinanzi a lui come una massa confusa. Egli la considera, non altrimenti che Michelangelo il blocco di marmo avverso. Braccia d’artiere terribili son le sue braccia. Voi lo vedete. E le sue mani possiedono l’atto come le mani del Dio stringono la folgore. Non si sa se le gonfi di sì grandi vene la possa dell’opera compiuta o di quella ch’è da compiere.
Dov’è, se non in voi, se non nella unanimità vostra improvvisa, o Italiani, la balenante bellezza ch’egli oggi solleva e pone dinanzi a sé per indurla al rilievo sublime.
Nessuno più parla basso; ché cessano il danno e la vergogna; l’ignavia di non veder, di non sentire cessano. E i messaggeri aerei ci annunziano che la Notte di Michelangelo s’è desta e che l’Aurora di Michelangelo, portando nel sasso il piede e il cubito, scuote da sé
la sua doglia ed ecco già balza in cielo dall’Alpe d’oriente.
Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe, delle loro carni lacerate si rifasciano, dell’armi onde perirono si riarmano, della forza che vinse si ricingono: per quella che subito dai grandi omeri sprigiona le penne della Vittoria.
Delle lor bende funebri noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere.
Or, di lungi, l’osso dell’ala non sembra il taglio d’una tavola d’altare, sollevata dall’ebrezza dei martiri? E non v’è, dentro, una cavità, simile alla fossa del sacrificio, pel sangue e per la vampa ?
Ah, se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ben questo bronzo oggi grida e comanda.
Se mai a grandezza d’eroi fu dedicata opera di metallo, conflàtile detta dagli antichi nostri, ciò è composta di fuoco e di soffio, ben questa è la suprema, tutta fatta di fuoco e di soffio, di fede infiammata e d’anelito incessante, d’ardor sostenuto e d’ansia creatrice.
È calda ancora. Ancor ritiene il furor della fornace. Il nume igneo l’abita.
Forse la vedreste rosseggiare, se la luce del giorno non la velasse.
Io credo che stanotte apparirà tutta rovente sul fremito del mare, fatta, come questa nova concordia nostra, di fusione che non si fredda. E gli altri eroi tornanti per Tirreno, dai sepolcreti di Sicilia ove il grano spiga e già pieno di frutto, diranno: “Lode a Dio! Gli Italiani hanno riacceso il fuoco su l’ara d’Italia”.
Grandi testimoni l’attestano. Il duce nel bronzo, eccolo, ha la statura e la possa di Teseo. Ma voi lo vedeste, santissimi vecchi, voi lo vedeste col suo corpo di uomo, con l’umano suo corpo mortale, col suo passo di uomo sulla terra. Tale egli è nei vostri santi occhi. Un figliuol suo, una creatura della sua carne, che le sue braccia cullarono, tra noi vive, parla, opera, aspetta di ricombattere. E non riarde al suo più rapido sangue nella giovinezza de’ suoi nepoti che vivere senza gloria non sanno ma ben sanno morire?
Uomo egli fu, uomo tra uomini. E voi lo vedeste, santissimi vecchi, lo vedeste da presso come la Veronica vide Cristo in passione. Il suo volto vero è impresso nella vostra anima come nel sudario il volto del Salvatore. Egli sorride. Voi lo vedeste sorridere! Diteci del suo coraggio. Apritevi il cuore, e mostrateci quel miracolo umano. Ciascuno di voi avrebbe voluto morire nell’attimo di
quel baleno.
Questo luogo egli lo traversò, con le sue piante di marinaio lo stampò, bilanciando su la spalla la spada inguainata. Alzò gli occhi a guardare se Arturo, la sua stella, brillasse. Udiste la sua voce fatale, più tardi nel silenzio della bonaccia, su l’acqua piena di cielo.
Taluno di voi lo vide frangere il pane sotto l’olivo di Calatafimi?
Ma quale di voi gli era vicino quando parve ch’egli volesse morire sopra uno dei sette cerchi disperati? Udiste allora la sua voce d’arcangelo?
Disse: “Qui si fa l’Italia o si muore”.
A lui che sta nel futuro “Qui si rinasce e si fa un’Italia più grande” oggi dice la fede d’Italia.
O primavera angosciosa di dubbio e di patimento, di speranza e di corruccio! Voi non udivate se non il romore cittadinesco, se non il clamore delle dissensioni, delle dispute, delle risse. Voi tendevate l’orecchio al richiamo dei corruttori. Consumavate i
giorni senza verità e senza silenzio. Ma i lontani scorgevano, di sotto alle discordie degli uomini, la patria raccolta nelle sue
rive, la patria profonda, sola con la sua doglia, sola col suo travaglio, sola col suo destino.
Si struggevano di pietà filiale divinando il suo sforzo spasimoso, conoscendo quanto ella dovesse patire, quanto dovesse essa affaticarsi per generare il suo futuro. E pensavano in sé: “Come soffri! Come t’affanni! In quale ambascia tu smanii. T’abbiamo amata nei giorni foschi, t’abbiamo portata nel cuore quando tu pesavi come una sciagura. Chi di noi dirà quanto più, ora, ti amiamo? Tutta la passione delle nostre vite non vale a sollevare il tuo spasimo, o tu che sempre la più bella sei e la più: paziente. Come dunque ti serviremo?
Uomini siamo, piccoli uomini siamo; e tu sei troppo grande. Ma farti sempre più grande è la tua sorte. Per ciò dolora, travaglia, trambascia. Tu avrai i tuoi giorni destinati.
E si mostravano i segni. Quando nella selva epica dell’Argonna cadde il più bello tra i sei fratelli della stirpe leonina, furono resi gli onori funebri al suo giovine corpo che fuor della trincea il coraggio aveva fatto numeroso come il numero ostile. Parve ai poeti che i quattro figli d’Aimone discendessero dalle Ardenne per portar sulle spalle la bara del cavaliere tirreno.
Il primogenito, che ci ode, quegli dalla gran fronte, s’avanzò nel campo quadrato, dove gli altri uccisi dei nostri giacevano in lunga ordinanza; si chinò, smosse la terra, ne prese un pugno e disse: “Rinnovando un costume di nostra antica gente, su questi cari compagni che a Francia la libera hanno dato la vita e l’ultimo desiderio all’Italia, in tormento, spargiamo questa fresca terra perché il seme si appigli”. Allora lo spirito di sacrificio apparì alla nazione commossa.
E venne un altro segno. L’estremo dei martiri di Mantova, il solo dei confessori intrepidi sopravvissuti alle torture del carnefice, Luigi Pastro, pieno d’anni e di solitudine, spirò la sua fede che, attanagliata dalle ossa ancor dure, non poté partirsi se non dopo lunga
agonia. Quando i pietosi lavarono la salma quasi centenaria, scoprirono intorno ai fusoli delle gambe i solchi impressi dalle catene.
Erano là, indelebili, da sessant’anni; e parve li rivelasse agli Italiani per la prima volta una grafia della morte. Allora lo spirito di
sacrificio riapparì alla nazione che si rammemorò di Belfiore. E venne un altro segno. Un’ ira occulta percosse e ruinò una regione nobile tra le nobili, quella dov’ è radicata dalle origini la libertà, quella dove il Toro sabellico lottò contro la Lupa romana, dove gli otto popoli si giurarono fede, si votarono al fato tremendo e la lor città forte nomarono Italica.
Quivi la virtù del dolore da tutte le contrade convocò i fratelli. Il lutto fu fermo come un patto. Lagni non s’udirono, lacrime non si videro. I superstiti, esciti dalle macerie, offerirono all’opera le braccia contuse. Nella polvere lugubre le volontà si moltiplicarono, prima fra tutte quella sovrana. L’azione fu unanime e pronta. Una spirituale città fraterna sembrò fondata nelle rovine pel concorso di tutti i sangui; e meglio che quella del giuro, poteva chiamarsi Italica.
I fuorusciti di Trieste e dell’Istria, gli esuli dell’Adriatico e dell’Alpe di Trento, i più fieri allo sforzo e più candidi, diedero alle capanne costrutte i nomi delle terre asservite, come ad augurare e ad annunziare il riscatto. Il fratello guardava il fratello, talvolta per leggere nel fondo degli occhi la certa risposta alla muta domanda.
Allora lo spirito di sacrificio entrò nella nazione riscossa, precorse la primavera d’ Italia.
Ed ecco il segno supremo, ecco il comandamento.
Questo era, questo è nell’ordine segreto del nostro Iddio.
D’angoscia in angoscia, d’errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, egli ci ha sollevati alla santità di questo mattino.
Mentre questo santo bronzo si struggeva nella fornace ruggente e la forma da riempire si taceva nell’ombra della fossa fusoria, una più vasta fornace, una smisurata fornace s’accendeva “di spirital bellezza grande”. E non corbe di metallo bruto v’erano issate in sommo: ma, come i manovali gettano ad uno ad uno nel bacino i masselli, gli spiriti più generosi vi gettavano il meglio della virtù
loro e incitavano i tardi e gli inerti con l’esempio.
Or ecco, alla dedicazione e sagra di questo compiuto monumento ci ha chiamati un messaggio d’amore. E a questa sagra di popolo datore di martiri, per altissimo auspicio, è presente la maestà di Colui che, or è molt’anni, in una notte di lutto commossa da un fremito di speranze, salutammo Re eletto dal destino con segni che anch’essi ci parvero santi.
A questa sagra tirrena istituita da marinai è presente la maestà di Colui che chiamato dalla morte venne dal Mare, che assunto dalla Morte fu Re nel Mare. Risalutiamolo col voto concorde. Fedele è a lui il destino, ed Egli sarà fedele al destino. Guarda egli la statua che sta, la statua che dura; ma intanto ode il croscio profondo della fusione magnanima.
Accesa è tuttavia l’immensa chiusa fornace, o gente nostra, o fratelli, e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco ansi e che il fuoco fatichi finché tutto il metallo si strugga, finché la colata sia pronta, finché l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente
della resurrezione. Già da tutte le fenditure, già da tutti i forami biancheggia e rosseggia l’ardore. Già il metallo si comincia a muovere.
Il fuoco cresce, e non basta. Chiede d’esser nutrito, tutto chiede, tutto vuole. Voluto aveva il duce di genti un rogo su la sua roccia, che vi si consumasse la sua spoglia d’uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non gli fu acceso.
Non catasta d’acacia né di lentisco né di mirto ma di maschie anime egli oggi dimanda, o Italiani. Non altro più vuole. E lo spirito di sacrificio, che è il suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani griderà sul tumulto del sacro
incendio: “Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia!”.
O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.
Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero.
Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.
Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offriranno la loro offerta.
Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.
Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.
Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia
Gabriele D’Annunzio
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discorso retorico,ridicolo