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Il Giorno del Ricordo è l’unica vittoria della cultura patriottica dalla sconfitta del 1945

by Stelio Fergola
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Giorno Ricordo

Roma, 9 feb – Domani sarà il diciannovesimo Giorno del Ricordo, a vent’anni dall’istituzione della legge sulla ricorrenza, aporovata in quell’ormai lontano 30 marzi 2004. Stante la frattura assoluta della Nazione italiana, questo traguardo rappresenta un’importante passaggio dalla storia all’attualità.

Giorno del Ricordo, l’unico successo dei patrioti

La cultura patriottica in Italia è minoritaria, purtroppo, e lo sappiamo bene. Anche e soprattutto per il fatto di essere schiacciata dal solito mainstream orientato a valori che, in ogni campo praticamente, spingono costantemente verso la distruzione etica, spirituale, popolare e perfino culturale della Nazione (gli esempi sono i soliti, dall’immigrazionismo, al globalismo, agli stessi festeggiamenti della sconfitta del 1945, ecc. Non ne parletemo in questa sede). Il fatto di essere praticamente forzati a celebrare la perdita dell’indipendenza nel maledetto 25 aprile è poi il coronamento di questo impianto. Il Giorno del Ricordo, al contrario, rappresenta un successo della residua mentalità patriottica di questa Nazione. Quanto meno in termini di cultura di massa. Niente di paragonabile alla Giornata della Memoria, ovviamente, ma si tratta comunque di una ricorrenza che sta avendo successo, riscuotendo consensi anno dopo anno e, come ci ha testimoniato anche l’intervista con Silvano Olmi, presidente del Comitato 10 febbraio, ampliando costantemente il suo “pubblico”, sebbene sia improprio chiamarlo tale, ma utile per comprendere la natura pedagogica della ricorrenza stessa.

L’Italia deve risvegliarsi: se questa è una delle strade, ben venga

Precisazione: chi scrive non è un fan accanito delle “giornate”, frutto di divisioni politiche e spesso di strumentalizzazioni. Però prova un’empatia maggiore per i propri simili che per gli altri, e non se ne vergogna. Ciò non significa che non possa essere rispettoso delle tragedie altrui, chiaramente. O che qualcuna di esse non possa coinvolgermi direttamente (mi vengono in mente due esempi: il dramma dell’Irlanda del Nord e la tragedia palestinese). Ciò detto, con buona pace dei pochi – sempre meno, per fortuna – che paragonano i  “crimini fascisti” in piena guerra con uno sterminio di massa perpetrato perfino a guerra finita, che già è una differenza non da poco (o che tentano disperatamente di appellarsi alle politiche discriminatorie del regime nelle terre di confine durante il ventennio, non certo differenti da quelle austriache precedenti alla liberazione delle terre irredente: chiunque, in quell’epoca, cercava di “nazionalizzare i confini” culturalmente e linguisticamente: e chi non lo sa ha una visione del tutto distorta della storia). Senza contare la differenza netta, in termini di numeri e di ferocia (link da leggere). Ma tralasciando ciò, costoro sono gli stessi che escludono categoricamente che io, scrivente in questo caso, come altri, possano avvertire maggiore empatia per le vittime italiane che per le vittime slave. Magari criminalizzandoci pure. Un approccio che a questo punto per assurdo potrebbe essere esteso anche a qualunque padre che si permetta di soffrire di più per un figlio che per una qualsiasi vittima esterna alla sua famiglia. Potremmo considerarlo apertamente un essere ingiusto, non degno di considerazione umana, no? Mi spiace, non siamo tutti uguali: il sottoscritto è  e si sente italiano. Soprattutto, si sente tale a prescindere da ciò che asseriscono o sostengono di “sentire” coloro che gli stanno intorno. Se a qualcuno la cosa da fastidio, “buona camicia a tutti”, come diceva il buon vecchio Maurizio Costanzo nel celebre spot.

Stelio Fergola

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