Roma, 18 mar- L’educazione della gioventù ha rappresentato, in tutte le epoche e per tutti i sistemi politici, uno dei massimi problemi da risolvere. Si tratta infatti, attraverso il processo formativo dei futuri cittadini, di garantire la prosecuzione nel tempo del modello sociale vigente, inclusi i rapporti di potere che esso prevede. Ciò vale per le democrazie come per le dittature, per le repubbliche come per le monarchie. Ovviamente, il tipo d’istruzione varia da regime a regime.
La scuola nei diversi sistemi politici
La storia della pedagogia è lunga come quella della civiltà stessa, e perciò non è possibile addentrarci nei particolari. Limitiamoci a prendere atto di alcune differenze fondamentali fra le diverse forme d’istruzione, in modo particolare tra quelle autoritarie e democratiche. Le prime somigliano assai da vicino ad un gigantesco Centro Addestramento Reclute, ove vige la più rigida disciplina paramilitare, e la ricerca di qualsiasi strada autonoma verso la crescita personale, o la più lontana parvenza di spirito critico, sono viste nel migliore dei casi come gravissime insubordinazioni, nel peggiore come veri e propri attentati all’ordine e alla legalità. Nelle seconde dovrebbe prevalere, almeno in teoria, il rispetto per la personalità dell’allievo e la conseguente valorizzazione delle sue doti innate e specifiche. La pratica, tuttavia, dimostra che ciò difficilmente avviene e, assai spesso, i due modelli si somigliano molto più di quanto ci si potrebbe aspettare, tanto da non apparire sostanzialmente diversi nelle cosiddette democrazie e nelle supposte dittature. Che si tratti della scuola della Francia e dell’Italia liberali, di quella dell’Italia fascista, della Germania nazionalsocialista o della Russia comunista, il denominatore comune è pur sempre la supina obbedienza ai docenti, investiti, in ogni ordine e grado d’istruzione, di un potere arbitrario e dispotico che non può essere sottoposto ad alcuna critica o contestazione. La legge si fa garante di questo status: le decisioni dei professori sono definite insindacabili e contro di esse non può essere proposto alcun ricorso giuridicamente fondato. II destino di un giovane è affidato molto più alla simpatia che riesce a suscitare nel docente, che al suo valore intellettuale e alla sua reale preparazione. Ciò induce i peggiori, almeno in senso etico, a forme estreme di captatio benevolentiae, la scappatoia più sicura per raggiungere i propri obiettivi. Questo sembra perfettamente ovvio e giusto alla maggior parte dei pedagogisti. E’ necessario, affermano, che un ragazzo si confronti fin dalla più tenera età con la spietatezza della vita, in modo da sviluppare i necessari anticorpi. Simile teoria, che secondo i suoi sostenitori dovrebbe fortificare l’anima e il carattere, ottiene invece l’effetto di allevare cittadini del tutto irresponsabili, incapaci di ragionare con la propria testa e pronti a subire qualunque ingiustizia, anziché reagire ad essa con una opposizione argomentata e coraggiosa, ossia sviluppando lo spirito critico. La triste realtà di questo modello d’istruzione (sarebbe più esatto chiamarlo d’addestramento) privo d’anima, è così descritta nella drammatica e dolorosa testimonianza di uno fra i più grandi letterati del Novecento, vincitore del Premio Goncourt 1960, con il suo capolavoro Dio è nato in esilio, il romeno Vintila Horia, che nella sua vita travagliata ha conosciuto la persecuzione, la miseria, l’esilio, infine la fama e il benessere. In tal modo si esprime nel Diario di un contadino del Danubio:
“Calore di Bucarest al tempo degli esami, ricordi tra i più infelici della mia vita. Ho sempre odiato la scuola, non come idea in sé, ma come immagine collettiva dell’insegnamento: un signore che trasmette a cinquanta allievi o studenti alcune semiverità sul tono mediocre imposto dalla legge, sulla misura di una media astratta, inesistente, e che esige, subito dopo, la riproduzione più о теno esatta della sua comunicazione. Lo spirito di massa nasce nella scuola. L’insegnamento privato è una eccezione. Le scuole di Stato, laiche ed egualitarie, costruite intenzionalmente secondo i vecchi pregiudizi del tempo di Robespierre e di Lakanal, sono in tutti i paesi i templi del laicismo più arretrato. Vi si compensano i pappagalli, vi si puniscono le aquile e le anatre selvatiche, quelli che disprezzano il suo codice da pollaio pedagogico. Leggevo molto, imparavo controvoglia, il solo scopo della mia vita essendo stato sempre quello di lasciarmi crescere secondo i miei propri mezzi. Lottavo disperatamente contro una potente alleanza di volontà esteriori unite per combattermi, per obbligarmi a rientrare nelle file, a somigliarle. Non ho mai ceduto, e pur essendo promosso agli esami al limite fra il bene e il male, sono sempre andato avanti per la mia strada, con una tenacia che da lontano m’impressiona. Sarebbe stato così facile, così deliziosamente comodo, cedere piano piano, curvarsi secondo la curva discendente come quasi tutti gli altri!” (1)
Le espressioni dell’autore si riferiscono alla sua esperienza romena nel periodo del vecchio regime, ma potrebbero adattarsi indifferentemente a qualsiasi realtà occidentale antecedente il Sessantotto. La verità è che la pedagogia democratica ricorda moltissimo quella totalitaria: la tirannia della maggioranza gioca un ruolo analogo a quella esercitata da un singolo individuo o da un gruppo sociale ristretto. Ecco perché le rispettive scuole differiscono assai poco nei metodi. E’ peraltro vero che dopo la rivolta sessantottina molte cose sono cambiate, e che un modello scolastico più partecipativo si è fatto faticosamente strada, per cui oggi il clima che si respira nelle aule, almeno in quelle del mondo occidentale, non è più lo stesso d’inizio secolo e neppure dell’immediato dopoguerra. Talvolta si rischia addirittura un’anarchia carica di nichilismo e priva di valori, reazione comprensibile ma non meno dannosa del soffocante autoritarismo di un tempo. Anch’essa, infatti, allontana il futuro cittadino dall’assunzione delle proprie responsabilità.
La Sociocrazia come nuovo modello d’organizzazione sociale
Un approccio creativo e interessante, allo scopo di adeguare le strutture educative alle esigenze di una società autenticamente democratica, fondata sull’esercizio della responsabilità individuale e collettiva, è quello sociocratico. La Sociocrazia non s’identifica né con una ideologia, né con un partito o movimento politico. Si tratta di un puro modello organizzativo applicabile a qualsiasi associazione umana, non importa se grande o piccola, pubblica o privata, di destra o di sinistra. In Olanda, ove esso è nato, e ove opera la Fondazione Sociocratica (Sociocratisch Stichting) di Rotterdam, con filiali ormai sparse nei cinque continenti, sono stati condotti esperimenti innovati ivi e degni del più vivo interesse. Per esempio, sono state sociocratizzate, già un ventennio fa ad opera dell’allora ministro Albeda, tre Divisioni del Ministero degli Affari Sociali, diverse imprese, alcune scuole e perfino un paio di parrocchie protestanti. A seguito dell’applicazione di questo nuovo metodo d’ingegneria sociale, sono stati rilevati i seguenti benefici: la conflittualità interna è pressoché scomparsa, lo spirito competitivo ha abbandonato le tradizionali connotazioni distruttive per trasformarsi in sana emulazione; l’invidia, la lotta di classe e l’assenteismo non esistono praticamente più; la produttività pro-capite è raddoppiata e in certi casi triplicata. Ma come si spiega questo apparente miracolo? Nel breve spazio del presente articolo non possiamo descrivere la Sociocrazia in dettaglio, compito che richiederebbe un intero volume. Ciò malgrado, vale la pena di riassumerne i principali criteri di funzionamento. La Sociocrazia, che letteralmente significa governo dei soci, propone una gestione integralmente partecipativa della società, la quale prevede la suddivisione dell’organizzazione umana in livelli stratificati, dai più bassi ai più alti, che il suo fondatore Gerard Endenburg definisce convenzionalmente circoli, ma che si potrebbero identificare con qualsiasi altra figura geometrica (2). Il simbolo dell’organizzazione partecipativa sociocratica è pertanto una piramide, formata da circoli collegati l’uno all’altro in via gerarchica, in modo che la trasmissione della volontà della base si trasferisca immediatamente dall’inferiore al superiore, e così via fino al Top Circle o Circolo Supremo. A fondamento della piramide troviamo la famiglia, definita prima cellula della società. La scelta del modello gestionale partecipativo deve iniziare proprio di qui, dalla creazione di un nucleo familiare ove viga il rispetto reciproco fra i suoi membri. Pur tenendo conto delle differenze naturali fra uomo e donna, genitori e figli, occorre tuttavia che le decisioni vengano prese in conformità con il principio dell’assenso, tipico della struttura sociocratica. Il tradizionale dispotismo del pater familias deve quindi lasciare il posto non certo all’anarchia, come invocherebbero talune mode neosessantottine, bensì al comune ed equilibrato esercizio della responsabilità, anche se commisurata al naturale processo di maturazione neurobiologica e psicologica della prole. La famiglia autoritaria del passato, espressione di una società che funzionava secondo gli stessi parametri, non riconosceva ai bambini e agli adolescenti alcuno spazio d’autonomia e di libertà. Ciò che veniva chiesto loro era la più assoluta e cieca obbedienza al padre, atteggiamento che in seguito avrebbero dovuto ripetere nel mondo degli adulti. La nuova famiglia, funzionale ad una comunità partecipativa, deve invece preparare all’esercizio della responsabilità fin dai primi anni di vita. Essa, nello svolgimento di questo difficile e delicatissimo compito, dovrà appoggiarsi a strutture esterne, quali consultori specializzati, pedagogisti, psicologi dell’età evolutiva, maestre d’asilo, eccetera. Al livello immediatamente superiore si delinea quindi un più esteso circolo, quello di vicinato, del quale faranno parte i rappresentanti eletti dei circoli inferiori: familiari, scolastici, di consultorio e simili. Esso prenderà le decisioni relative ai problemi del proprio livello. I rappresentanti eletti di più circoli di vicinato formeranno quello di quartiere, mentre più circoli di quartiere daranno vita al circolo municipale, il cui leader è il sindaco del Comune. I rappresentanti eletti di più circoli municipali formeranno poi quello regionale, mentre l’insieme di questi daranno vita al circolo statale, il cui leader è il capo del governo. Ovviamente la gerarchia potrebbe continuare al di là dello Stato stesso, proiettandosi con i medesimi criteri di rappresentanza diretta negli organismi sovranazionali e internazionali. In ciascun circolo le decisioni vengono assunte in base al principio dell’assenso dei partecipanti, coinvolgendo ognuno di essi nel dibattito e nella delibera finale, Questa è comunicata al circolo gerarchicamente sovraordinato, ad opera dei rappresentanti eletti di quello inferiore, nel numero minimo di due, per reciproco controllo. Le differenze, rispetto al meccanismo elettivo tradizionale, sono: il coinvolgimento diretto, senza intermediari, di tutti i membri di un determinato circolo, e la comunicazione immediata che si crea fra questi e i loro delegati in quello superiore. Qualora essi derogassero dall’incarico ricevuto, nella tutela del punto di vista degli elettori, questi ultimi potrebbero chiedere ai primi ragione del loro comportamento e, se le spiegazioni non fossero convincenti, destituirli dall’incarico senza attendere la scadenza del mandato né ulteriori formalità. La gerarchia sociocratica è quindi una forma di partecipazione integrale e di democrazia diretta, che suddivide la complessa società contemporanea in diverse agorà, una sovraordinata all’altra, nelle quali l’individuo gioca un ruolo primario, senza doversi affidare a rappresentanti con cui sarebbe molto difficile, se non impossibile, dialogare. Ciò rappresenta il massimo di libertà, compatibile col massimo di responsabilità personale. Nell’impossibilità d’approfondire i numerosi settori applicativi di tale modello, ci concentreremo sull’aspetto che ci siamo ripromessi di trattare: quello della scuola e dell’educazione.
Verso una scuola libera
Le società moderne, autoritarie o democratiche che siano, si rivelano responsabili di un enorme spreco d’energie e talenti umani, una delle principali cause delle loro ricorrenti difficoltà, anche se non tutte in eguale misura. Per esempio, quella americana è notoriamente più aperta alla meritocrazia di quelle europee. L’altra conseguenza negativa di simili ordinamenti falsamente egualitari è lo scontento che creano, potenziale minaccia all’ordine costituito. Non esiste infatti più grande ingiustizia che trattare in modo eguale i diseguali: chi si sente defraudato delle proprie legittime aspettative, nell’ipotesi migliore si rifiuta di collaborare al bene comune, nella peggiore diviene un elemento pericoloso e asociale, dedito alla rivolta e al crimine. Nel primo caso la società rinuncia a contributi preziosi, nel secondo si vede costretta a una sistematica repressione della devianza, con costi pubblici elevatissimi. E’ possibile allora prevenire tali anomalie, e con quali strumenti? La Sociocrazia offre molte risposte originali a questo interrogativo, ma una delle più interessanti riguarda proprio la pubblica istruzione. Una scuola preordinata a una società libera dovrà conformarsi all’esigenza di valorizzare al meglio le specifiche doti di ciascun allievo, esaltandone le qualità indipendentemente dai pur inevitabili difetti. Elargire conoscenze standardizzate, esigendo da tutti la medesima capacità di riprodurle in uno spazio temporale identico, non solamente è causa di gravi ingiustizie ad personam, come abbiamo visto, ma provoca una quantità incalcolabile di tempi morti, in ragione dei quali un processo formativo che potrebbe durare,re, ipotizziamo, tre an ni, ne richiederà invece quattro o cinque e produrrà comunque risultati deludenti. Come suggerisce il modello sociocratico d’affrontare la questione? Il consiglio è innanzitutto separare il percorso formativo scolastico dal fattore tempo, riconducendolo alle specifiche esigenze dello studente. Una sia pur parziale applicazione di ciò la troviamo nei piani di studio universitari, che lasciano libero l’allievo di presentarsi agli esami nelle date e con le cadenze da lui preferite, sulla base della propria capacità e velocità d’apprendimento. Inoltre, quand’anche una prova dovesse andar male, gli è sempre accordata la facoltà di ripeterla in tempi stretti, senza per questo dover perdere l’anno. Non si dovrà poi condizionare, il passaggio alla classe superiore, all’apprendimento di tutte le discipline previste dal corso. Scrive Gerard Endenburg:
“Obiettivo della scuola è assistere l’individuo nella sua crescita permettendogli di perseguire il suo sviluppo intellettuale ed etico; per raggiungere questi traguardi il fattore tempo (per esempio l’età o la velocità d’apprendimento) non deve rappresentare un ostacolo; da queste due premesse consegue che l’individuo deve poter fare uso della scuola nel corso della sua intera esistenza, indipendentemente dai risultati conseguiti o dal termine entro il quale lo sono stati. La conseguenza pratica è che la scuola deve offrire a ciascuno una eguale opportunità di sviluppo”(3).
Come ciò sia realizzabile è così ipotizzato: si potrebbero suddividere i percorsi formativi annuali in segmenti molto più brevi, trimestrali o mensili, e questo per ciascuna materia. Al termine di ogni periodo lo studente avrebbe la possibilità di sostenere un test di verifica, superato il quale sarebbe ammesso al segmento successivo. Qualora invece fallisse (l’autore non usa mai il verbo bocciare, caratteristico della scuola autoritaria) riceverebbe l’opportunità di riprovarci dopo un certo numero di settimane, a sua scelta. Se in una materia non ha avuto successo, può tuttavia aver completato il proprio percorso in un’altra, trovarsi a metà strada per quanto riguarda una terza e non aver sostenuto neppure un test in una quarta. Dovrebbe allora ripetere la classe? Neppure per idea: passerebbe comunque al corso superiore, durante il quale deciderebbe in quali discipline mettersi in pari, quelle in cui contentarsi di un limitato avanzamento, quali abbandonare del tutto. Ma cosa accadrebbe al termine dell’intero corso di studi? Conseguirebbe o meno la licenza? A tal proposito occorre abbandonare i vecchi schemi e pregiudizi. La maturità si otterrebbe non grazie al superamento di uno specifico esame, bensì sulla base dei percorsi completati. Il diploma rilasciato riguarderebbe, in via differenziale, le singole materie per le quali si fosse terminato con successo il percorso formativo. Pertanto, se un allievo risultasse in pari in italiano e storia, riceverebbe un attestato limitato a queste discipline, ciò che gli aprirebbe esclusivamente le porte di quelle Facoltà universitarie compatibili con questo tipo di preparazione, mentre gli precluderebbe l’accesso a quelle tecniche e scientifiche. In egual modo, per quanto riguarda il lavoro, gli verrebbe consentito l’esercizio di attività concernenti il diploma ricevuto, con esclusione di tutte le altre. Se invece non avesse portato a compimento nessun percorso, non gli verrebbe consegnato alcun attestato, lasciandolo libero di scegliere, l’anno successivo, se ripresentarsi a scuola o meno e, in caso affermativo, in quali materie concludere la propria formazione e quali abbandonare definitivamente. E’ ovvio che un sistema così liberale e autogestito d’istruzione non potrebbe essere applicato in egual misura ad ogni livello della carriera scolastica. Non si potrebbe permettere, infatti, che un futuro cittadino, potenzialmente in grado d’assumere qualsiasi ruolo sociale, ignorasse del tutto l’aritmetica se portato per le discipline letterarie, ovvero la propria lingua se prediligesse quelle tecnico-scientifiche. Una base culturale comune sarebbe quindi necessaria, almeno fino al livello dell’attuale scuola media inferiore. Anche in tal caso si dovrebbe però mantenere valido il principio dei percorsi differenziati nel tempo, sia pure esigendo il completamento di tutti per accedere all’insegnamento superiore. Tale riforma della scuola comporterebbe notevoli vantaggi sia per l’individuo che per la società. Al primo sarebbe lasciata la libertà di decidere in quale ramo del sapere specializzarsi; la seconda potrebbe contare su personalità davvero preparate, selezionate e fortemente motivate in un determinato campo del lavoro e della ricerca. Quando poi l’individuo, in base alla propria esperienza, dovesse ripensare alle scelte compiute, nessuno gli vieterebbe, anche dopo molti anni, di riprendere gli studi esattamente dal punto ove li avesse interrotti: nulla andrebbe perduto, del tempo e della fatica impiegati. L’applicazione alla pedagogia di questa visione integralmente partecipativa corrisponde all’esigenza di far respirare fin dai primi anni di vita, ai futuri cittadini, l’atmosfera della libertà e della responsabilità. Chi si scaglia contro un’educazione fondamentalmente libera, degna dell’uomo e della sua irrinunciabile dignità, in nome di concezioni autoritarie e livellatrici, nella maggior parte dei casi è spinto da qualche personale interesse. Il controllo della mente e del cuore dei giovani si rivela, da sempre, l’esigenza primaria di tutte le tirannie. Ecco perché una nuova comunità, basata su una convivenza davvero libera, non può rinunciare a un sistema formativo coerente con tali premesse.
La collocazione della scuola in un modello partecipativo
E’ evidente che un settore educativo autogestito e privo di costrizioni debba prevedere il coinvolgimento di diversi esperti, dal consulente didattico allo psicologo, in grado d’interloquire con l’allievo, la scuola e la famiglia. Simile modello d’istruzione esige poi che alle riunioni dei docenti, quelle ove si discute il destino dell’allievo, questi possa presenziare, al fine di chiarire le proprie motivazioni, i propri obiettivi, le difficoltà incontrate e i progetti futuri. La gestione dei percorsi deve avvenire tramite là concertazione di tutte le parti coinvolte, e non restare appannaggio di una sola di esse, come accade nei sistemi autoritari. Nello stabilire i parametri di questo coinvolgimento si dovrà tener conto, ancora una volta, dei differenti livelli d’età. Non è certo ipotizzabile che un bambino di sei o sette anni possa esprimere giudizi su di sé e sulle proprie inclinazioni allo studio, paragonabili a quelli di un sedicenne o di un diciottenne. L’educazione alla responsabilità, propedeutica al futuro esercizio della libertà, deve tuttavia iniziare fin da subito. Pur tenendo conto dell’obiettiva limitatezza di vedute dei piccoli, anche questi devono crescere sperimentando la sensazione che le loro preferenze vengono tenute nel debito conto dagli adulti, e che gli errori di valutazione commessi producono comunque effetti, anche se commisurati alla loro situazione esistenziale. Ecco perché le figure d’appoggio alla crescita appaiono indispensabili, ragion per cui il sistema scolastico, iniziando dalle elementari, non può limitarsi a funzionare sulla base dei soli insegnanti, allievi e genitori, ma deve inglobare diverse figure d’esperti. La Sociocrazia estende perciò anche a questo settore il proprio modello organizzativo circolare, integrato ai diversi livelli. Alla base troviamo i circoli di gruppo, formati da tutti coloro che compongono le singole classi (insegnanti, allievi, famiglie); i rappresentanti eletti di questi si radunano nel circolo scolastico, con il compito d’affiancare il preside e il consiglio generale della scuola; i delegati del circolo scolastico formeranno infine quello superiore, il cui ruolo è decidere l’intera politica dell’istituto, insieme agli esperti esterni di cui esso si serve. I problemi concreti che via via si pongono sono affrontati in prima istanza dal circolo stesso in cui si manifestano, ma se questo non si rivela in grado di risolverli dovranno essere sottoposti a quello immediatamente superiore e, in caso ancora negativo, diverranno materia per quello più alto, il quale pоtrà ricorrere agli esperti esterni (educatori, psicologi, medici, giuristi) per sciogliere le questioni più controverse. Tale struttura gerarchica è poi in comunicazione diretta, attraverso i delegati eletti del circolo superiore, con il circolo municipale, ovvero Assessorato alla Pubblica Istruzione, per le scuole elementari, o con il circolo nazionale, ossia il Ministero, per quelle superiori. Occorre subito precisare che in un’ottica integralmente partecipativa tutte le situazioni, anche le più difficili e spinose, possono e debbono essere risolte nell’ambito della stessa struttura gerarchica del settore scuola, investita del potere di decidere in merito; l’intervento di giudici o arbitri esterni, come avviene nei sistemi autoritari mediante il ricorso ai tribunali amministrativi o a quelli ordinari, non ha più luogo d’essere. Il passaggio da una classe a un’altra, l’ottenimento di un certo tipo di diploma, oppure la necessità di ripetere determinati esami, sono decisioni prese con il coinvolgimento diretto e responsabile di tutte le componenti della scuola, discepoli inclusi. Il pregiudizio, l’accanimento, il fumus persecutionis di un insegnante verso un determinato allievo, sono eventi possibili nel sistema educativo tradizionale, non in quello qui descritto. Senza dubbio, simile modello di scuola richiede una profonda trasformazione di mentalità da parte di tutti i soggetti coinvolti: personale docente, familiari, studenti. Mentre nella logica autoritaria ciò che paga è la furbizia, l’ipocrisia, la capacità d’inganno e di simulazione, in quella partecipativa premiano valori come la lealtà, l’umiltà di riconoscere i propri limiti e la volontà di superarli, il rispetto di sé e del prossimo, l’amore per la libertà, il senso di responsabilità. Un campus studentesco così gestito risulterebbe un’ottima palestra per l’edificazione di quella società giusta e libera, da sempre invocata dal pensiero liberale, da quello cristiano e, sia pure in diverse forme, da quello socialista, mai però veramente realizzata.
Di dove cominciare?
La transizione dal sistema scolastico autoritario a quello partecipativo non è semplice e necessita di una preliminare educazione degli educatori stessi. I genitori, gl’insegnanti, i familiari, le autorità scolastiche, gli allievi, per quanto intelligenti e cаpаci possano essere, provengono da esperienze nelle quali prolungati eccessi d’autoritarismo e brevi reazioni anarchiche si sono alternati in un susseguirsi d’eventi, per la maggior parte negativi, che hanno prodotto lo sfacelo dell’intero settore, come oggi balza agli occhi di tutti. Praticare una pedagogia diversa significa acquisire la capacità d’estraniarsi da una serie di cattive ma rassicuranti abitudini, che non si abbandonano certo da un giorno all’altro. Ecco perché, qualora si volesse intraprendere tale cammino, fondato su libertà e responsabilità, occorrerebbe predisporre un piano generale d’intervento ad opera di specialisti e cultori della materia. Si potrebbero per esempio costituire gruppi di lavoro e ricerca presso talune Facoltà universitarie pilota o istituti specializzati, organizzando master e corsi di pedagogia partecipativa, o come altrimenti si preferisse chiamarli. Formato un primo gruppo d’esperti, bisognerebbe poi individuare una o più scuole sperimentali, in cui applicare il nuovo modello organizzativo. In linea di massima sarebbe preferibile che queste appartenessero al settore pubblico, ma qualora ciò risultasse impossibile per impedimenti legali o burocratici, si potrebbe iniziare da qualche realtà privata purché riconosciuta. Ciò potrebbe avvenire sia in Italia che all’estero. La nostra convinzione è che, indipendentemente dal luogo o dalla tipologia di scuola in cui il modello venisse applicato, i risultati si rivelerebbero così originali e positivi da suscitare ampio interesse ed emulazione. Come sempre, l’essenziale è redigere un progetto, crederci fermamente e perseguirlo con professionalità e coerenza, ma anche con l’umiltà necessaria a correggere tempestivamente gli inevitabili errori. Siccome però l’attuazione di nuove e più avanzate soluzioni sociali è ormai un imperativo categorico per la sopravvivenza stessa della nostra civiltà, il successo, ne siamo certi, non potrà mancare.
Carlo Vivaldi Forti
NOTE
- (1) Vintila Horia, Diario di un contadino del Danubio, ed. Il Borghese, Milano, 1967, р. 177.
- (2) Gerard Endenburg, Sociocratie, ed. Endenburg, Rotterdam, 1988.
- (3) Gerard Endenburg, cit., p.154.