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Il successo di Donald Trump e il mutamento “culturale” del partito repubblicano

by Stelio Fergola
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Trump rivoluzione culturale monca

Roma, 17 gen – Donald Trump che trionfa in Iowa è solo l’ennesimo esempio di una propensione di massa dell’elettorato repubblicano che, dal 2016 in avanti, ha mostrato dei netti cambiamenti. Cambiamenti evidentemente non graditi dall’establishment americano medesimo, perfino interno al Gop, il quale gradirebbe decisamente ben altri candidati nella corsa alla Casa Bianca.

Trump e una rivoluzione culturale “monca”

C’è qualcosa di indiscutibilmente culturale nella popolarità di Trump, ben oltre la conta dei voti. Una cultura che in questi anni si è dimostrata propensa a ben altre evoluzioni rispetto al classico scherma alternato  “repubblicani versus democratici” tipico della politica statunitense. Chi sostiene Trump è assolutamente interessato a un nuovo corso, soprattutto in politica interna. Per fare un esempio, è nella memoria l’azione che il tycoon, quando è stato presidente, ha mosso contro le delocalizzazioni e a favore di una rinascita del mercato interno: due attività politiche indiscutibilmente in controtendenza rispetto alla imperante – e impoverente – globalizzazione economica che ha sconvolto l’Occidente negli ultimi trent’anni. Ovviamente, nulla di così dirimente da metterla in discussione in toto, ma sicuramente un’inversione di tendenza. Produciamo in casa, paghiamo stipendi degni, rilanciamo il lavoro: questa la sintesi.

E gli americani che lo sostengono, probabilmente, avvertono questa “devianza” rispetto alle solite politiche ultraglobaliste e militareggianti in giro per il mondo. Il riassunto sembra evidente: basta con lo spreco di energie planetarie, occupiamoci “di noi”. Ciò detto, perché la rivoluzione culturale di Trump è monca e – probabilmente – destinata ad esaurirsi? Il motivo è molto semplice: si tratta di qualcosa che – pur nella sua dirompenza indiscutibile – è inscindibilmente legata al suo nome e alla sua persona. Niente che abbia prodotto una generazione di attivisti e di sostenitori che rilancino determinati approcci oltre di lui insomma. Niente che abbia generato “strutrura” consolidata. E, di conseguenza, qualcosa che difficilmente potrà sopravvivergli (sebbene il “chi vivrà vedrà” vada sempre tenuto in considerazione). Del resto, i fatti del 2020 lo avevano già testimoniato: un simile terremoto, pur ingente, non si è dimostrato abbastanza forte da spodestare gli equilibri di potere attualmente in vigore negli Usa. Tutto sta a capire se potrà farlo almeno nel prossimo futuro…

Dem e repubblicani “standard” promuovono altri candidati

Nel frattempo, i due partiti tradizionali vorrebbero ben altro. E gradirebbero, senza troppi fronzoli, che a sfidare Joe Biden ci fosse qualcun altro. Ne è una prova assoluta l’insistenza con cui il mainstream politico e giornalistico statunitense  (su tutti, la Cnn) sta supportando il nome di Nikki Haley, appena terza in Iowa, distaccata perfino da Ron DeSantis. Senza girarci troppo intorno, l’idea è quella di riportare “l’istituzionalità classica” in contrapposizione alla “anomalia trumpiana”, che – non ci vuole un genio per capirlo – qualche scombussolamento lo ha comportato, e diversamente non si spiegherebbe l’accanimento giudiziario degli ultimi anni. Politiche troppo divergenti – indipendentemente da quanto “simili”, nelle parole dei più critici – che vanno sconfessate e ostacolate in ogni modo. Anzitutto, con altri nomi in lotta. Per ora – ma diremmo da anni – un’operazione che si scontra con la durissima realtà del successo del tycoon.

Stelio Fergola

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