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L’ebbrezza della libertà e dell’eroismo: l’impresa di Fiume ci parla ancora

by La Redazione
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Roma, 12 set – È il 12 settembre del 1919 e Gabriele D’Annunzio, partito da Ronchi alla testa di 2.500 legionari, entra a Fiume, conquistando la città con un’impresa che sembra pura follia, contro le regole e gli accordi della politica nazionale e internazionale che andavano a delinearsi dopo la Grande Guerra. Sprezzante di ogni decisione presa ai tavoli delle trattative con gli alleati e ben risoluto a vendicare quella «vittoria mutilata» che tanta frustrazione e delusione aveva fatto nascere nel cuore degli italiani, D’Annunzio decide di mostrare nuovamente al mondo quello che è il coraggio italiano, mettendo tutti di fronte al fatto compiuto: Fiume è italiana.
«Dopo quest’atto di rinnovata volontà dichiaro: Io soldato, Io volontario, Io mutilato di guerra, sento di interpretare la volontà di tutto il sano Popolo d’Italia proclamando l’annessione di Fiume alla Patria».
Il gesto di D’Annunzio diventa, per i patrioti e gli avanguardisti italiani ed europei, l’emblema di uno slancio libertario e, soprattutto, la messa in atto di una sfida contro il sistema di valori di un’Europa vecchia, ormai immobile e incancrenita, traditrice del sangue versato da un’intera generazione che, superata la prova della Grande Guerra, si ritrova, contro ogni previsione, unita sotto le insegne dannunziane, in un crogiolo di sognatori, idealisti, poeti armati e disertori provenienti dalle più diverse esperienze umane, politiche e culturali.
L’obiettivo? Riprendersi tutto.

Numerosi Arditi seguirono D’Annunzio nell’impresa


Repubblicani, sindacalisti, arditi, anarchici e nazionalisti, uomini e donne, uniti in un unico sogno di libertà, accorrono da ogni parte d’Italia, d’Europa e del mondo (come dimenticare qui Harukichi Shimoi, «il Samurai di Fiume») per conquistarsi il futuro, plasmarlo e modellarlo secondo le proprie aspirazioni. «La rivolta capeggiata da D’Annunzio – scrive Ledeen – era diretta contro il vecchio ordine esistente dell’Europa occidentale, e fu attuata in nome della creatività e della virilità giovanili che si sperava avrebbero dato vita a un mondo modellato sull’immagine dei suoi creatori». Da Keller a Comisso, da Carli a Kochnitzky, una moltitudine umana mette in scena un’esperienza irripetibile fatta di eccessi, di valori e di modelli completamente antitetici a quella della morale corrente. La trasgressione, a Fiume, è norma, è essenza. E, davanti allo storcere del naso dei benpensanti, i legionari gridano ridendo «me ne frego».
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In un clima di crescente euforia, Fiume diventa simbolo di rivoluzione, di ribellione continua. È carica eversiva, rivoluzionaria che riesce, nei sedici mesi di reggenza, a conciliare i più diversi estremi. «Un cozzo di tendenze opposte che dà splendore», si trovò a dire Guido Keller e non a caso. In quell’esperienza sono stati concretizzati quelli che erano e sono gli ideali di una bellezza e di una libertà senza alcun freno, in un magma di novità, passioni e slanci ideali spezzati solo dall’intervento delle truppe italiane che, guidate dal generale Caviglia, presero d’assalto Fiume nel cosiddetto Natale di Sangue, nel dicembre 1920. «Il pranzo dell’Ornitorinco. I canti degli ufficiali nella sala terrena. Scendo. La foschia. I baci sulle mani, i singhiozzi. Le donne […]. Il contatto sensuale. La sensualità dell’adunata. Il sangue di marasca nei bicchieri […]. L’ardore, l’ebrezza del canto, l’aura dei Soviet. L’ebrezza della libertà. La passione delle donne».
A quasi cent’anni di distanza, l’esempio di Fiume è ancora vivo ed è nostro dovere guardare ad esso. Non solo contro i Cagoia contemporanei, indegne macchiette di una nazione che ha già capitolato da tempo, ma anche e soprattutto contro noi stessi. Eccessi, passioni, eversione: a Fiume si poteva, è vero. Ma bisogna essere legionari per potere, altrimenti è vuota buffonata. La prima, vera battaglia va fatta contro la tentazione borghese della vita comoda, della vittoria facile, della strada in discesa. Le rivoluzioni, buona gente, non si fanno dopo pranzo. Ma non è mai tardi per andare più oltre.
Marta Galimberti

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