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La Grecia e la fine dell'ottimismo sociale

by La Redazione
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Atene, 13 lug – La farsa greca a cui abbiamo assistito in queste ultime settimane parrebbe concludersi nel più tipico degli schemi tecnocratici: il debito porta austerità, alla quale seguono nuove forme di prestito di liquidità e nuove garanzie reali assicurate dal debole governo di turno. Lasciamo perdere fantasiose ricostruzioni geopolitiche. Il modello economico globale è così fatto e in vigore per tutti, europei, americani, cinesi: si consuma a debito. Si consuma per le banche.
Prendere atto di ciò significa pertanto essere politicamente consapevoli di una conseguenza ancora nascosta: con l’imminente accordo greco muore quella sempiterna visione dell’ottimismo sociale praticata dall’estrema sinistra e non solo, in ogni forma di crisi economica. Muore, in un certo senso, la canzoncina jovanottiana della cancellazione del debito e con essa ogni palliativo di politica pseudo-forte.
Muore, in breve, l’idea che con una tassetta in più, un sacrificio piccolo in più, un giorno in meno di lavoro, un taglio di qua e uno di là, si possa tutti, continuare a consumare amorevolmente il benessere che il globo produce; muore l’idea stessa di consumo come riscatto sociale, come direzione paradisiaca dell’uguaglianza fra i popoli. Muore, e sta volta sul serio, non più fisicamente ma pure spiritualmente, Steve Jobs, e il paradosso di un mondo pacifico, dal feticismo ipertecnologico, e per questo capace di dimenticare la realtà dei fatti: il fido in banca, la tassazione oltre il 60%, gli schiavi cinesi delle fabbriche gulag.
Tsipras è certo il simbolo politico di questo fallimento, il Vendola greco. Né Leonida né Platone. Un sofista. Un demagogo. Il giusto maestro di un pessimo modo di intendere la vita. E qui ci facciamo seri: il sacrificio che la sinistra radicale greca ha imposto al popolo di Grecia è un sacrificio inutile. Si colorano le manette e le catene di uno sgargiante arcobaleno. Ma il debito resta. E resterebbe comunque. Anche fossero i russi a pagarlo. Anche se, per il piano inclinato dell’incompetenza, una dracmetta senza valore fosse il metro di giudizio di quello stesso debito.
Un sacrificio inutile non è dunque un vero sacrificio. Non c’è nulla di sacro in esso. E perciò a nulla porterà. E’ un avviso che deve essere letto da tutte quelle forze politiche che in Europa fanno ancora dell’ottimismo sociale, della paura del non benessere, la principale arma politica di riscatto nei confronti della Troika. Non basta parlare di sovranità economica e monetaria. Non serve. Serve sacrificio, al contrario. Serve qualcosa di davvero sacro. Ricordiamo qui, sommessamente, ciò che il Fascismo fece fra il 1925 e il 1928, quando con l’operazione Quota 90, il regime rivalutò la lira fino a portarla alla parità con la sterlina; un evento storico, che significò molto: il pareggio di bilancio, un’effettiva indipendenza economica e monetaria, la possibilità dunque di agire sullo scenario internazionale da attori riconosciuti; infine, con i conti a posti, l’inizio della costruzione dell’Italia moderna e del suo stato sociale. Tutto ciò avvenne grazie a quattro anni di una vera austerità, con un forte crollo della domanda interna e dei salari, la cui finalità era opposta a quella che a noi oggi imposta: guadagnarsi la propria indipendenza. Così diceva Mussolini: «La nostra lira, che rappresenta il simbolo della Nazione, il segno della nostra ricchezza, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa.»
Non un Vendola qualsiasi. Non uno Steve Jobs del ‘900. Questo era il padre della Patria. Esempio per tutti gli Europei di oggi. Cominciamo a cercare la nostra Quota 90.
Giacomo Petrella

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1 commento

Nikasio 13 Luglio 2015 - 11:34

Ricordo ancora le parole della prof.ssa di Storia e Filosofia (ovviamente sinistra) quando in classe spiego’ le principali conquiste del Fascismo: “la lira a quota 90 fu un inutile sacrificio che Mussolini fece fare al popolo per smania di potere “.
Questo e’ il prodotto di una “cultura politica” che fa del pressapochismo il suo punto di forza: slogan annoiati privi di logica.

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