Roma, 21 giu – Nel calendario dell’antica Roma, il 21 giugno era segnato come giorno infausto. Si ricordava infatti la battaglia del Trasimeno, in cui il console Gaio Flaminio era stato duramente sconfitto da Annibale, lasciando Roma alla portata del cartaginese. Gli eventi si collocano nel 217 a.c., la seconda guerra punica era entrata nel vivo della contesa allorché Annibale, superate le Alpi con il suo esercito, si stava dirigendo verso Sud devastando tutte le terre che avevano conosciuto la felice pax romana. La tattica di Annibale fu di combattere contro i due consoli separati. Importante è un passo di Cicerone nel libro Sulla natura degli Dei : ”Celio riferisce che Gaio Flaminio per aver trascurato le sacre cerimonie, cadde al Trasimeno con grave iattura per la patria. Dalla rovina di questi uomini si può ricavare che lo Stato prosperò quando il potere fu in mano a persone ligie ai doveri religiosi. E se vorremo paragonare la storia di casa nostra con quella dei popoli stranieri troveremo che in tutto il resto fummo pari ad essi o anche inferiori, ma in fatto di religiosità, cioè di culto divino, fummo loro di gran lunga superiori”.
Ma che cosa si rimproverava al console? Flaminio aveva trascurato di compiere le solenni cerimonie che ogni nuovo console doveva compiere, tanto che, scrive Livio : ”…non più solo al Senato, ma agli stessi Dei immortali Caio Flaminio muoveva guerra. Allora, eletto console senza aver preso gli auspici, non aveva obbedito né agli Dèi né agli uomini che lo richiamavano dal campo. Ora, consapevole di quel suo dispregio, aveva fuggito il Campidoglio e la solenne offerta dei voti per non entrare, nel giorno dell’assunzione della carica, nel tempio di Giove Ottimo Massimo, per non vedere e non consultare il Senato, da cui egli era odiato, e che egli, solo, odiava, per non indire le Ferie Latine e non celebrare sul monte Albano il solenne rito a Giove laziale, per non recarsi sul Campidoglio, presi gli auspici, a far l’offerta dei voti, e di là partire, paludato, per la provincia, coi littori. Come un servo, senza insegne, senza littori egli era partito, di nascosto, di soppiatto, non altrimenti che se, condannato all’esilio, avesse mutato paese!”
L’esito della battaglia, combattuta peraltro senza la tradizionale avvedutezza dei comandanti romani, non poté che essere disastroso, con oltre 15.000 caduti e 10.000 in fuga o dispersi. Polibio riporta che: ”Per questa disfatta, in accordo con i libri sibillini, venne offerta in voto una primavera sacra“ e venne scelto come dittatore con pieni poteri Quinto Fabio Massimo. Interessante, come sempre avviene approfondendo la storia di Roma, analizzare il comportamento dei nostri avi di fronte alle avversità.
Nel giorno più lungo dell’anno, nel solstizio d’estate, quando il sole sembra non tramontare mai, l’uomo tende (naturalmente) a confrontarsi completamente con la realtà intorno a sé, con il rischio sempre latente, però, di trascurare la cura del sacro. Il sole è un simbolo potente di una luce e di una fiamma che deve, prima di tutto, brillare e ardere dentro di noi. Forse anche per questo i romani ricordavano la tragica sconfitta del lago Trasimeno, come ammonimento a non dimenticare mai il legame con gli Déi. Allora durante la notte, davanti ai fuochi che brilleranno in tutta Europa, i brindisi augurali evochino la vittoria della luce e la sconfitta dell’oscurità (prima di tutto dentro noi stessi).
Marzio Boni