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Le prigioni italiane nel Medioevo? Erano meno "escludenti"

by La Redazione
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Roma, 23 dic – Quando si studiano i fenomeni e le pratiche connesse all’incarceramento e più in generale al sistema penitenziario medievale, salta all’occhio una differenza importante rispetto alle prigioni moderne e cioè la collocazione e distribuzione. Mentre oggi le carceri (specie nel mondo anglo-americano) sono in qualche modo isolate, costruite nelle periferie o in ambiti extraurbani o addirittura rurali, le prigioni nel Medioevo, in Italia specialmente, venivano costruite all’interno delle città.
Senza voler fare una disamina dell’aspetto penitenziario sotto il profilo sociologico e psicologico, che esulerebbe dalla nostra analisi storica, si può notare come oggi la vita del carcerato sia tesa all’isolamento dalla società e come invece nel Medioevo, le prigioni non erano del tutto elementi escludenti: i mercanti, ad esempio, potevano mandare avanti le loro attività e gestire gli affari anche dall’interno del carcere. L’arresto di una persona non necessariamente comportava l’abbandono totale dalla società cittadina e il rilascio non portava automaticamente al nuovo reinserimento.
I prigionieri poveri potevano contrarre ulteriori debiti con altri detenuti durante la prigionia oppure ricevere aiuti, anche istituzionali. La confraternita fiorentina di Orsanmichele provvedeva alla distribuzione di cibo e in alcuni casi si preoccupava di offrire un supporto economico alle famiglie dei carcerati. A Siena, intorno al 1300, le prigioni erano divise in reparti separati per debitori, criminali, donne e persone in attesa di giudizio. Per gli aristocratici o comunque per le persone che se lo potevano permettere, il podestà trovava alloggi più dignitosi. La separazione tra uomini e donne serviva a ridurre le pratiche sessuali mentre la violenza era abbastanza comune; in generale, la distinzione in reparti sottolineava la propensione da parte delle autorità a mantenere i prigionieri in vita ed in salute. Normalmente le donne non potevano migliorare la loro condizione: erano recluse in un unico reparto senza distinzioni di reato e questo le rendeva più facilmente soggette ad abusi. Prima del XIV secolo, vale a dire prima dell’istituzione di differenti reparti, le donne erano recluse nei monasteri. Un’ulteriore categoria di detenuti per cui venne creato un apposito reparto era quella dei malati, inclusi quelli mentali.
Altra grande differenza con le prigioni moderne risiede nella routine quotidiana. I prigionieri medievali non beneficiavano di nessun programma di attività o di lavoro volto a spezzare la monotonia della reclusione o istituito al fine di un (improbabile) reinserimento lavorativo. La vita in carcere a quel tempo era noiosa: i detenuti lavoravano raramente, le visite erano limitate, i libri di difficile approvvigionamento, gli spazi ricreativi mancavano, gli alcolici erano tassativamente proibiti (tranne a Venezia) e le prostitute scarseggiavano. Vi erano comunque le funzioni religiose quotidiane, la distribuzione di cibo, i sermoni a cadenza settimanale e le visite dei supervisori, posto che questo fosse sufficiente a percepire meglio l’avanzare lento dei giorni passati in prigionia. I detenuti passavano il tempo anche a disegnare graffiti sui muri: venivano annotati i giorni trascorsi, le preghiere, le morti di alcuni carcerati; altri avevano relazioni omosessuali ma il passatempo più praticato era il gioco d’azzardo, peraltro proibito all’interno del carcere così come all’esterno.
Nell’Italia centrale gli spazi adibiti a prigione venivano ricavati all’interno delle torri cittadine o nei palazzi comunali che a loro volta davano sulla piazza principale. A Bologna vi erano strutture carcerarie negli edifici tuttora esistenti in Piazza Maggiore (Celle della Biava, la Prigione femminile, il Palazzo di Re Enzo). A Venezia, la camera in cui venivano eseguite torture ed interrogatori fu collocata sopra l’ufficio del Consiglio, le celle invece nella parte bassa, tanto che i membri del Consiglio solevano lamentarsi del fetore che saliva dalle celle. A Firenze, la prigione degli abbienti restò indipendente per più di dieci anni prima di essere trasferita alle Stinche. Prima di questo edificio le donne venivano rinchiuse alla Pagliazza, un’altra torre signorile espropriata e che oggi ospita un Hotel.
A Siena e a Bologna la supervisione delle carceri era affidata al podestà e al capitano del popolo; alle Stinche, dove il numero di detenuti era più alto rispetto alle altre città, il sistema di controllo era più complesso: gli elemosinieri assistevano alle carcerazioni e ai rilasci, l’esecutore degli Ordinamenti di Giustizia svolgeva controlli a cadenza settimanale, annotando le condizioni dei prigionieri, la condotta delle guardie e del personale in genere, prestando attenzione alle violazioni. A Venezia erano il doge e un gruppo di consiglieri a controllare le prigioni, almeno fino al 1297, quando questo tipo di responsabilità cadde sui Signori della Notte.
I registri dei notai della prigione tenevano nota del traffico dei prigionieri, date, ragioni dell’arresto, il nome della guardia che l’aveva eseguito, la cifra del debito contratto dal carcerato, la sua occupazione, il luogo di nascita o provenienza (laddove era possibile). Queste registrazioni formavano una sorta di dossier personale del prigioniero che includeva anche le note sui pagamenti effettuati per cancellare il debito, la sua morte eventuale o la sua esecuzione o le circostanze del suo rilascio. Questo tipo di annotazioni servivano a verificare che ogni prigioniero pagasse i suoi debiti e allo stesso tempo cercava di combattere fenomeni di estorsione o di collusione tra guardie e creditori. Intorno alla metà del Trecento, le prigioni si diedero una forma (sebbene ancora abbastanza rudimentale) di ordinaria amministrazione.
Concludendo si deve sottolineare la relativa tollerabilità dell’incarcerazione medievale, il basso tasso di mortalità dei detenuti, la rarità delle evasioni e la scarsa violenza degli stessi nei confronti del personale di guardia.
Michelle Pardini

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